L’Anello mancante

“Questa pietra non solo attrae direttamente gli anelli di ferro, ma comunica il proprio potere agli anelli stessi che fanno quel che fa la pietra. Attraggono cioè, altri anelli, sicché si formi a volte una lunghissima catena di pezzi di ferro e di anelli pendenti l’uno dall’altro”. Platone “Ione

I generi letterari che più avrebbero una collocazione tradizionale al giorno d’oggi, si possono identificare con i romanzi storici di ambientazione specifica e con la letteratura fantasy. Gli scritti tolkieniani sono divenuti un serbatoio di iconografie e simbolismi, spesso tesi ad un’ideologizzazione impropria che sfocia nella vera e propria mistificazione. Ricostruendone invece la poetica e ricollocandola nella sua giusta dimensione culturale se ne individuano i collegamenti con la letteratura fantastica anglosassone e si scoprono le originalità linguistiche ed i richiami mitologici.

 

Weltanscauung

L’interpretazione allegorica ipotizza un significato intellettualistico, ma legittimo di viaggio iniziatico. Tale lettura presupporrebbe però una preesistente weltanscauung pregna di significati a priori, del tutto opposta alla scaturigine di miti innestati o ritrovati a posteriori su di un testo, o sui suoi diversi livelli variamente correlati tra loro. In questo specifico caso è allora maggiormente imputabile ad una indefinitezza dei significanti lasciare spazio ad evocazioni metaforiche o metonimiche adeguate alle precedenti esperienze soggettive del lettore.

L’interpretazione tradizionale tendente a promuovere una lettura simbolica, tale da ripescare il contenuto mitico, riproposto sotto forma narrativa, affine alle dottrine storico-religiose espletate dai vari Mircea Eliade, Julius Evola, René Guénon, Georges Dumézil, venne offerta da Elémire Zolla nella sua introduzione alla prima edizione italiana de “Il Signore degli Anelli”.

 

L’Anello che non tiene

“Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità.” Eugenio Montale “I Limoni

Nel definire le caratteristiche più evidenti di questa interpretazione di Zolla, Lucio Del Corso e Paolo Pecere, ne “L’Anello che non tiene (Tolkien tra letteratura e mistificazione)” (Minimum Fax, Roma, 2003), ricorrono a termini quali “il linguaggio oracolare” o “vertiginosi accostamenti ad un ampio repertorio letterario, mitico e dottrinale e, conseguentemente, la presenza ricorrente di simulacri irriconoscibili dei personaggi del libro”.

“Il mondo del testo… perde ogni autonomia, venendo ridotto alla funzione di un involucro…”. Rivivificando tematiche religiose sotto forma di fiabe, avrebbe cercato di far fronte alla “moderna miseria” spirituale per dare inizio o alimentare un’epopea cavalleresca, attraverso valori numerologici ed archetipi alchemici.

 

Gli Anelli della Fantasia 

“La grande originalità di Tolkien ed il motivo fondamentale del suo successo stanno probabilmente nella sua capacità mitopoietica. – spiegano Andrea Monda e Saverio Simonelli  ne ”Gli Anelli della fantasia” (Frassinelli, Milano, 2004)- Avere, cioè, realizzato in pieno Novecento un edificio fantastico con tutti gli elementi della tradizione mitica eppure con delle caratteristiche assolutamente proprie: la centralità del linguaggio, l’invenzione antiepica degli Hobbit, le storie nelle storie. Un reticolato di riferimenti colti e di novità. Un mondo appunto diverso ed inconfondibile, dove il lettore ama vivere e dove può incontrare anche ospiti inattesi che aggiungono nuova vita.”

 

Fairy- story

Tolkien stesso scrisse un saggio sulla “fairy- story” nel quale rifiuta definizioni restrittive quali quelle di residuo folklorico del mito. Le sue origini sarebbero più complesse, ulteriormente complicate da inevitabili contaminazioni e dotti riferimenti.

 

Piers Plowman

Il maggior poema del medioevo inglese viene considerato il “Piers Plowman” di William Langland (1332-1400), che, con il Chaucer dei “Canterbury Tales” e l’anonimo autore di “Gawain and the Green Knight”, risulta una figura centrale della produzione letteraria inglese del XIV secolo. Si tratta della storia di un sogno, da parte di Will, la volontà, alla ricerca dell’Aratore (S. Pietro o Cristo).

Questa formula venne riproposta nel 600 da John Bunyan (1628-1688), nel suo “The Pilgrim’s Progress from this World to That wich is to come”, redatto dal 1678 al 1684.

 

The Ferie Queene

Però, a dare all’Inghilterra un poema cavalleresco, come quelli medievali, ci aveva già pensato Edmund Spenser (1552-1599), con “The Ferie Queene”, dove la regina Elisabetta è impersonata da Gloriana, nel cui nome i cavalieri compiono le loro imprese all’interno di scenari fiabeschi, dentro i quali assumono forma visibile di foreste stregate o di dimore incantate, nani o giganti, idee filosofiche, concetti teologici, speculazioni ermetiche.

 

Paradise Lost

Per il tema ricorrente della “caduta” è fondamentale ovviamente il “Paradise Lost” di John Milton (1608-1674). Questo tema Tolkien lo considerava uno dei motivi portanti della sua opera, tanto da fargli affermare, in una lettera al figlio: ”Sicuramente c’era un eden su questa infelicissima terra. Noi tutti ne abbiamo nostalgia, e lo intravediamo costantemente: tutta la nostra natura nella sua forma migliore e meno corrotta, più gentile e più umana, è impregnata dalla sensazione dell’esilio”.

Nella tradizione giudaico-cristiana, la caduta dell’uomo, e scacciata dal Paradiso terrestre, è conseguenza della precedente caduta degli Angeli, il male era stato introdotto nel giardino edenico dal serpente tentatore. Mentre, nel Silmarillion, pur essendo successiva alla ribellione delle libere volontà, la creazione del mondo contiene già in se stessa elementi di contraddizione.

 

Robinson Crusoe

Quello che viene considerato, comunque, come il primo vero e proprio “novel” inglese, è il “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, che risente sia di Milton che di Bunyan, anche se le avventure eccezionali vengono attribuite ad un personaggio assolutamente comune. Il protagonista perde il suo “paradiso borghese” per poi recuperarlo attraverso un’autoanalisi, in un crescendo interiorizzato.

Pure il “Gulliver” di Jonathan Swift è un uomo qualunque, e l’Alice di Lewis Carroll una ragazzina come tante. In questi esempi, la stranezza sta tutta riposta nelle loro visioni. Invenzioni e immagini come allegorie di caratteri umani convergono, in ultima analisi, in parodia. L’analogia potrebbe rinfrescarsi con i toni sarcastici nel caso dell’ Orwell de “La Fattoria degli Animali”.

 

Novel e Romance

Nel “novel”, per definizione, gli avvenimenti dovrebbero essere adeguati al normale corso degli eventi umani, mentre il “romance” rivolge il proprio interesse principalmente al meraviglioso

ed all’inconsueto, a quanto è proprio al di fuori del comune.

 

Il romanzo gotico

Si dice che il primo romanzo di fantascienza nasca con il “Frankenstein” di Mary Shelley, quasi ad evoluzione intrinseca, ma sollecitata dai tempi, del romanzo gotico, ormai già affermatosi con “Il Castello di Otranto” di Horace Walpole, “Il Monaco” di Matthew Arnold Lewis, il “Vathek” di William Beckford o le opere di Ann Radcliffe e Sheridan Le Fanu. E’ quindi soltanto alla fine dell’ottocento che fa capolino il moderno fantasy, mostrando quel suo precipuo carattere di storia intrisa di magia, ambientata in un contesto del cui quotidiano costituisca parte integrante ed inseparabile.

 

William Morris

Il modello ispiratore di Tolkien sembra sia stato William Morris, quello del poema allegorico “Love is enough, or the Freeing of Pharamond”, o della versione inglese della saga di Sigurd the Volsung, e soprattutto quello di “The Earthly Paradise”, dove raccolse innumerevoli leggende, greche e romane, orientali e nordiche. Altri suoi famosi romanzi sono l’utopistico Notizie da nessun luogo (1891), ambientato in una Londra del futuro (del 2003), ed Un sogno di John Ball, che ha per sfondo una sorta di medioevo re-inventato. Le atmosfere delle saghe nordiche dell’Edda ricompaiono in The House of the Wolfings, The Roots of the Mountains, e La storia della pianura seducente, anche se il più ammirato da Tolkien, che lo considerava come la pietra miliare del fantasy moderno, resta Il Bosco oltre il mondo. Tolkien avrebbe voluto comporre un romanzo proprio come questi di Morris, sulla falsariga della vicenda di Kullervo, lo sfortunato eroe del Kalevala finnico. Di quell’atmosfera ci rimane il racconto di Turin Turambar, pubblicato postumo nel Silmarillion.

Del poliedrico Morris, Tolkien amava la commistione di poesia e prosa, e l’invenzione linguistica di quell’inglese arcaico da quell’autore denominato teutonic.

Nel pieno trionfo della rivoluzione industriale la riscoperta del Medioevo sembrava forse una naturale conseguenza per opporsi al disumano avanzare della fredda tecnica e delle impersonali  macchine. In Morris la riscoperta della tradizione non equivaleva ad una campagna di scavi archeologici, ma rappresentava semmai una visione utopistica della società.

Pure ne Il Napoleone di Notting Hill di Gilbert Keith Chesterton, il medioevo costituisce metafora per una rivoluzione e ricomposizione della moderna frattura tra scienza e arte. Ma in quest’ultimo autore il rifiuto del capitalismo lo spinge a fondare il movimento distribuzionista, nel tentativo di mediare la giustizia economica con l’impegno religioso cristiano nel sociale.

Borges, per la sua riflessione su “L’arte narrativa e la magia” prende a modello il romanzo in versi di Morris The Life and Death of Jason. La narrativa magica è molto formalizzata poiché crea un mondo magico, splendidamente lucido, minuziosamente organizzato, ed ordinato in tutti i suoi dettagli. Tutto diventa rilevante in una trama rigorosamente intessuta; ogni parte corrisponde al tutto in maniera logica, ogni episodio è conseguenza di un altro come in un gioco ad incastro, tipico del giallo.

 

Lord Dunsany

Il gioco della ricerca estetica prevale in Edward John Moreton  Drax  Plunkett, più noto come Lord Dunsany. La sua cosmogonia, esposta in “Gli dei di Pegana”, è stata paragonata a quella di William Blake, anche se in questi il rinnovamento dell’etica è totale e fa riferimento al pensiero di Swedenborg, così come sembra prolungarsi idealmente in Nietzsche. Lord Dunsany sarebbe, più che altro, il continuatore, e per certi versi un po’ anche l’ispiratore, del filone della letteratura onirica, e rispettivamente di Mac Donald e H.P. Lovecraft.

“Non scrivo mai di cose che ho visto – cento altri lo possono fare – ma solo di cose che ho sognato”. Per Dunsany l’avventura fantastica si sviluppa in un mondo immaginario con gusto per l’ironia ed un certo innegabile mordente. Per il suo sense of humour, si colloca nella stessa categoria del Vathek di Beckford.

Lovecraft aveva riconosciuto un’importante influenza di Lord Dunsany anche per la suggestiva invenzione dei nomi di luoghi, personaggi e divinità.

 

Il viaggiatore perdigiorno

Nell’intimo di ciascuno di noi, per Goran Tunstrom, si erge una “cattedrale di sogni”.

“Una canzone dorme in tutte le cose/ che sognano e sognano/ e il mondo prende a cantare/ se solo indovina la parola magica” cantava Joseph Von Eichendorff (1788-1857), autore di Vita di un perdigiorno.

Max Luethi (La fiaba popolare europea), ha evidenziato come nelle fiabe, come nei racconti picareschi, “creature isolate ed esseri soprannaturali altrettanto isolati si incontrano, si congiungono, si separano, non esiste tra loro alcuna tensione di un rapporto permanente. Vengono a contatto perché implicati nell’azione”. Il viaggiatore perdigiorno passa la vita cantando nei boschi, di castello in castello, di avventura in avventura ed alimenta la mitografia relativa al tema del vagabondo girovago, specifico per la nascita dell’ideologia naturista di wandervogel e hippies, per la creazione del pregiudizio sui nomadi, e gli zingari in particolare, o per tratteggiare la misteriosa figura dell’ebreo errante.

 

Il mito dell’ebreo errante 

Nella cronaca di Matteo di Parigi, fondata su di un racconto armeno, si narra del facchino di Pilato che spinse il Cristo ad affrettarsi verso il suo destino. Gesù avrebbe replicato:” Sto camminando poiché è scritto che vorrò e dovrò riposare presto: tu invece camminerai per il mondo fino al mio ritorno”. E’ questo episodio leggendario all’origine delle narrazioni sull’archetipo dell’ errante, che in seguito avrebbe acquisito le caratteristiche dell’ebreo punito per i crimini del suo popolo. Nel XVII secolo la versione definitiva di questo mito lo descrive come un calzolaio di nome Ahasuerus che vaga nel tempo e per lo spazio, a vivente testimonianza dei simboli di una identità o della particolare modalità di percepire l’altro da sé.

 

Le formule di sapere 

Nel Franz Sternbald di Tieck, invece, “tutto è limpido e trasparente – scrive Mittner- e lo spirito romantico sembra intessere una gioconda fantasia su se stesso”. In questi racconti si respira l’aria spavalda della Wandererphantasie di Schubert o della Sinfonia delle Alpi di Richard Strauss.

Paul Feyerabend formula il postulato romantico di poesia e musica quali forme di conoscenza. Nel Dialogo sul Metodo assegna alle arti il ruolo di “coniare strumenti di saggezza” e “fornire informazioni importanti per il nostro modo di vedere il mondo”, secondo una strategia di conoscenza per cui “le formule di sapere sono come storie” che creano “un mondo proprio in cui, anche solo per breve tempo il lettore riesce ad immergersi”.

 

Specchi contrapposti

Ladislao Mittner (“Storia della Letteratura Tedesca”), nel commentare la pièce teatrale di Ludwig Tieck “Sommernacht”, la definisce continuazione e ad un tempo anticipazione del Sogno di una notte di mezza estate, in quanto l’immaginazione di uno Shakespeare bambino da cornice si fa quadro, da rilievo si fa sfondo in un procedimento speculare di specchi contrapposti.

Labirintiche le lezioni di Borges e Calvino: ”E’ delle città come dei sogni. Tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli e ogni cosa ne nasconde un’altra” (Le città invisibili)

 

George MacDonald

George MacDonald si inscrive a pieno titolo nel filone della letteratura  per l’infanzia, quella di James Barrie, Lewis Carroll, Edith Nesbit, Madeleine L’Engle, e la stessa Rowling. Oltre ad “At the back of the North Wind” va ricordato “Lilith” e naturalmente il famoso “Phantastes: a Faerie Romance for Men and Women”, che ha ricoperto un ruolo di spicco nella storia del genere fantasy moderno, influenzando scrittori come Michael Ende. Il nome del protagonista è già un sufficiente indizio, Anodos, senza via, come “Ercole al bivio” o Dante nella selva oscura.

 

I longevi

Molto apprezzato nella cerchia degli Inklings, di cui facevano parte Tolkien e Lewis, fu Eric Rucker Eddison, per il suo “Il serpente Ouroboros”.

Secondo Tolkien “se il racconto tratta di qualcosa (oltre che di se stesso), questo qualcosa non è come tutti sembrano supporre, il potere. La ricerca del potere è solo il motivo che mette in moto gli avvenimenti ed è relativamente poco importante, penso. Il racconto riguarda principalmente la morte, e l’immortalità, e le scappatoie; la longevità e la memoria”.

Clive Staples Lewis, autore di Perelandra e de Le Lettere di Berlicche, appartenente al gruppo degli Inklings, si occupò dei longaevi nel suo saggio su “L’immagine scartata”, asserendo che si sarebbero potuti far rientrare nel novero delle fate “se questo non fosse stato inflazionato da tanta letteratura per l’infanzia”. In “De nuptis Mercurii et Philologiae”, Marziano Capella li aveva descritti come esseri “danzanti che infestano i boschi e le radure ed i boschetti, i laghi e le sorgenti ed i ruscelli”, identificandoli quindi con Pan e le sue schiere di Fauni, Satiri, Silvani e Ninfe. Mentre Bernardo da Lilla non li riconobbe immortali, ma solo con “una vita più lunga della nostra… creature innocenti, dalla conversazione irreprensibile” (De Mundi Universitate).

 

Il nonsense

 “The Lord of the Rings/ is one of those things/ if you like you do:/ if you don’t, the you boo!”.

Chesterton, nel suo saggio su “L’età vittoriana nella letteratura”, sottolineò l’importanza del nonsense per MacDonald ed ancora maggiormente per Lewis Carroll, dove più che di illogicità occorre parlare semmai di antilogica, un suo rovescio cioè speculare.

La descrizione della realtà che gioca con i suoi lati più comici ed improbabili, fino a trasfigurarli è stata la strada battuta dai vari  Jonathan Swift, Mark Twain, Flann O’Brien, senza però dimenticare il Barone di Munchausen di Burger o il Mago di Oz di Frank Baum, per finire a Terry Pratchett.

 

Joanne Kathleen Bowling

Nessuno può assicurarci se sia vero quanto si mormora di Joanne Kathleen Rowling, che sia cioè realmente una strega, certo è che il suo fascino Harry Potter lo trova perfettamente sintonizzato sullo spirito della contemporaneità, pur sembrando costruito più sulla figura dickensiana di Oliver Twist. La Rowling è stata apertamente accusata di paganesimo e di apologia ed incitamento alle pratiche occulte, né a sua difesa appare sufficiente quell’alone di ironia e goffaggine che si respira nelle sue trame. Le allusioni sono spesso evidenti e nient’affatto camuffate. Vablatsky per Blavatsky, Durm strang per Sturm und Drang, Goyle per gargoyle, Hermion è poi fin troppo un personaggio shakespeariano.

 

Guillemot

Anche Erik L’Homme, ideatore della saga “Il libro delle stelle”, ripropone la trasformazione di un preadolescente insicuro in un eroe, grazie all’aiuto di un gruppo di coetanei ed ai poteri soprannaturali, nonché la commistione di un passato medievale nel nostro presente. La suggestione sta sempre nella costruzione di mondi altri, nel caso di Guillemot ben tre fra loro contestuali, e nell’ affascinante diversità dei popoli dell’Incerto.

 

Lo specchio dell’uomo

Tolkien distingueva le fiabe in mistiche, se rivolte al soprannaturale, magiche, se indirizzate alla natura, e quelle invece cosiddette dello specchio dell’uomo, perché formate da storie dentro altre storie. Throug the Looking Glass per Lewis Carroll, “Un oscuro scrutare” per Philip Dick. E poi non bisogna dimenticare In a glass darkly di Sheridan Le Fanu (1814-1873), più noto come autore di Carmilla, uno dei primi vampiri di sesso femminile. E vampirica è pure la spada tempestosa di Michael Moorcock che si nutre delle anime di coloro che uccide, trasmettendone parte dell’energia a chi la brandisce.

Ebbene, già in Phantastes, MacDonald citava, parlando di specchi oscuri un passo della Bibbia di re Giacomo (1 Cor, 13, 12): “For now we see through a glass, darkly; but then face to face”.

 

Doppelganger 

La ricorrente presenza dello specchio e la comparsa dell’alter ego sono sicuri elementi di inquietudine. Nel William Wilson di Poe, il protagonista uccide il suo omonimo tormentatore per scoprire di essersi privato di una parte di sé. Ingombrante il doppio immaginato da Nathaniel Hawthorne ne Il grande volto di pietra, mentre per Hoffmann è un vero e proprio incubo negli Elisir del Diavolo. Il racconto di Hoffmann L’uomo della sabbia è stato analizzato da Freud nel celebre saggio sul perturbante. Ad una frantumazione caleidoscopica riconduce l’immagine speculare che Hermann Hesse ci descrive ne Il Lupo della steppa.

 

Il senso comune

Il nightmare di G.K. Chesterton si sviluppa in “L’uomo che fu Giovedì”. Borges, nel commentarlo, si rifà a Coleridge: “la fede poetica è una sospensione volontaria e condiscendente dell’incredulità”. E lo stesso GKC, in Ortodossia, confessava: “le cose in cui ho sempre creduto di più sono le novelle delle fate, che a me sembrano essere cose interamente ragionevoli. Il paese delle fate non è altro che il soleggiato paese del senso comune. Abbiamo la lezione di Cenerentola; che poi è la stessa del magnificat: exaltavit humiles. Abbiamo la famosa lezione della Bella e la Bestia: una cosa deve essere amata prima di essere amabile. Abbiamo la terribile allegoria della Bella addormentata, la quale ci insegna che la creatura umana, benedetta al suo nascere da tutti i doni, ha però la maledizione della morte; ma anche la morte può essere trasformata in un dolce sonno”.

 

GKC

L’immagine che ci fornisce Chesterton della sua poetica si racchiude forse tutta in questa frase assiomatica: ”Tutto passerà, resterà solo lo stupore, lo stupore per le cose quotidiane”.

La sua riflessione sul tema dei rapporti tra fantasia, magia e religione, Chesterton la concluse nel saggio scritto dopo la sua conversione al cattolicesimo. “Il mondo pagano, come tale, non avrebbe mai preso sul serio l’idea che il bambino è una cosa più alta e più sacra dell’uomo… Peter Pan non appartiene al mondo di Pan, ma al mondo di Pietro”.

“La fede cattolica è la riconciliazione perché è la realizzazione della mitologia e della filosofia. E’ una storia, ed in un certo senso è una storia tra tante; solo che è una storia vera… c’è una storia umana e c’è una storia divina, che è anche una storia umana… Perché ogni storia, anche un romanzaccio o una novelletta da quattro soldi, ha qualche cosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina con il giudizio finale”.

 

L’ eucatastrofe

Tolkien definisce eucatastrofe la consolazione offerta dal lieto fine, facendo un parallelo tra novella fiabesca, da un lato, ed evangelica, dall’altro. Cosicché la subcreazione letteraria rientrerebbe in un riflesso della creazione divina.

Eppure, nel rifiuto di comporre opere didascaliche, l’intenzione resta quella di preservare il territorio della fantasia in una sua originaria purezza, non inquinata dalle religioni monoteistiche. Scartati i miti anglosassoni cristianizzati, come quello arturiano, già sfruttato da Sir Thomas Malory (Le Morte Darthur, 1469) e da Alfred Tennyson (Morte d’Arthur, The Holy Grail and Other poems, 1869), la componente di indeterminatezza propria della fiaba veniva rintracciata nei testi più arcaici dell’Edda. Quindi soltanto nel passato più primitivo delle popolazioni germaniche. Anche se il sogno di una nuova mitologia Tolkien lo avrebbe vagheggiato per amore di certe lingue delle quali prediligeva la sonorità, quali il finnico ed il gallese, che costituiscono la base per l’invenzione delle lingue elfiche.

 

Il progetto di Dio: l’ apocatastasi

“Per noi un albero è semplicemente un organismo vegetale, ed una stella semplicemente una palla di materia inanimata che si muove lungo una rotta matematica. Ma i primi uomini che parlarono di alberi e di stelle vedevano le cose in maniera del tutto differente. Per loro il mondo era animato da esseri mitologici, vedevano le stelle come sfere d’argento vivo che esplodevano in una fiammata in risposta alla musica eterna. Vedevano il cielo come una tenda ingioiellata e la terra come il ventre dal quale tutti gli esseri viventi sono venuti al mondo. Per loro tutta la creazione era intessuta di miti e popolata di elfi… – riporta Humphray Carpenter ne “Gli Inklings” – Non soltanto i pensieri astratti dell’uomo, ma anche le invenzioni della sua immaginazione devono derivare da Dio, e di conseguenza, riflettere parte della vita eterna. Creando un mito, praticando la mitopoiesi e popolando il mondo di elfi, draghi e spiriti maligni, il narratore o subcreatore realizza di fatto il progetto di Dio e riflette un minuscolo frammento della vera luce. I miti pagani perciò non sono mai semplici bugie, in essi vi è sempre qualcosa di vero”.

Subcreazione, reinvenzione, ricreazione, intrattenimento, nel senso di consumare il tempo, trascorrerlo, avvicinarsi alla fine, all’ apocatastasi, per come forse intendeva Ernesto De Martino (“La Fine del Mondo”, Einaudi, Torino, 2002; Sasso G. : “Ernesto de Martino fra religione e filosofia”, Bibliopolis, Napoli, 2001), nel concepire gli eventi in termini storici più che in quelli escatologici di una palingenesi o viceversa di una Gotterdammerung.

 

Magia del linguaggio

A proposito della natura della magia, Tolkien la postula radicata nelle stesse potenzialità linguistiche, come l’astrazione, con cui le parole designano azioni, che costituisce un potere magico da prolungare nelle rappresentazioni fantastiche, quali incantesimi letterari.

Tolkien individua nella magia il criterio di definizione della fiaba e nella fantasia (fantasy) il suo principio poetico, ma sosteneva comunque di aver inventato prima la lingua e gli alfabeti e solo successivamente dei popoli idonei per ognuno di questi linguaggi. Tanto che le cose più affascinanti dell’universo tolkieniano sono proprio la forza e la coerenza della nomenclatura di luoghi, personaggi, flora e fauna. Era, del resto, ciò che Lovecraft ammirava in Lord Dunsany.

 

La lingua della creazione

“Solo nel silenzio la parola,/ solo nelle tenebre la luce,/ solo nella morte è vita:/ fulgido è il volo del falco/ nel cielo del deserto” (La creazione di Ea)

Al centro dei romanzi della trilogia di Ursula K. LeGuin sta la magia come scoperta del nome delle cose. “Conoscere i nomi è il mio mestiere. La mia arte. Per intessere la magia di una cosa, vedi, è necessario scoprire il suo vero nome… E tutte le opere della magia sono ancora imperniate sulla conoscenza (la riscoperta, il ricordo) di quell’antica lingua della creazione” (Le Tombe di Atuan).

L’altra spinta iniziale è costituita dalla necessità di tornare alla sorgente del linguaggio recuperando quella che sarebbe stata la lingua della creazione, come spiega Paul Auster in “Città di vetro”:

“il solo compito di Adamo nell’Eden era stato  quello di inventare il linguaggio, di dare a ogni cosa e a ogni creatura il suo nome. In quella condizione di innocenza, la sua lingua era andata dritta all’essenza del mondo. Le sue parole non erano state solamente apposte alle cose che vedeva, ma ne avevano rivelato la natura, le avevano letteralmente portate alla luce. Una cosa e il suo nome erano intercambiabili. Ma dopo la caduta non fu più così. I nomi divennero cose distaccate; le parole regredirono fino a diventare un insieme di simboli arbitrari; il linguaggio era stato amputato da Dio. La storia dell’Eden, quindi, narra non solo della caduta dell’uomo ma anche della caduta del linguaggio”.

Tipicamente giudaica è l’idea dell’ equivalenza tra l’atto di nominare a quello del dominare. “Nessuno conosce il vero nome di un uomo, tranne lui stesso e colui che gliel’ha dato… Chi conosce il nome di un uomo ha in custodia la sua vita” (Il Mago di Earthsea)

La morale comune alla LeGuin, a Lewis ed allo stesso Tolkien sembra essere questa, e cioè che il potere scisso dal senso di responsabilità è distruttivo, demoniaco.

 

La lancia del destino

“Uno degli esempi più tipici dell’aspetto distruttivo del potere, quando è perseguito secondo mire nefande,- riferisce Laurence Gardner ne “Il Regno del Signore degli Anelli”-  è rappresentato dalla fanatica ossessione, la smania irresistibile che a partire dal 1930 si impossessò di Adolf Hitler alla ricerca delle sacre reliquie del Castello del Graal”. Ritenendo di aver individuato nell’antica lancia usata da Carlo Magno quella con cui il soldato romano Longino trafisse il costato del crocifisso agonizzante, successivamente divenuta nella leggenda graaliana la “lancia del destino”, si convinse che il possesso di tale reliquia di straordinario potere avrebbe fatto divenire il Reich altrettanto potente e forte quanto l’impero di Carlo Magno, almeno finché non fosse andato perduto quest’amuleto, dando così inizio al periodo dell’inesorabile declino. Difatti, solo quando il 30 aprile 1945, la settima armata del generale Patton occupò il castello di Norimberga, dove era stata custodita la sacra lancia, Hitler, secondo Trevor Ravenscroft, “Hitler e la Lancia del destino” (Mediterranee, Roma, 2003), accettò la sconfitta e si sentì davvero tallonato dalla ineluttabilità degli avvenimenti.

 

Il Mito che uccide

Anche Otto Rahn trovò la morte, inseguendo un sogno; è la tesi che Mario Baudino espone in “Il Mito che uccide “ (Longanesi & C., Milano, 2004). L’autore di “Crociata contro il Graal” e “La Corte di Lucifero”era convinto della corrispondenza tra i cavalieri della quest ed i personaggi ed i luoghi catari della Linguadoca. A cominciare dallo stesso nome di Parzival, o Perceval, interpretato come “qui perce bien” (che taglia bene), e quindi analogo a quello dei visconti di Carcassonne, gli eroici Trencavel, i quali avevano scelto di essere vassalli del re d’Aragona fin dal 1150 e pertanto erano divenuti il principale obiettivo della persecuzione franco-cattolica. In un poema più tardo del Parzival, perché scritto tra il 1260 ed il 1275, dal titolo “Nuovo Titurel” e attribuito prima a Wolfram von Eschenbach, e più recentemente ad Albrecht von Scharfenberg, il castello del Graal si troverebbe in Galizia custodito dagli eredi di Perille, che potrebbe essere accostato, sia pure per semplice assonanza, a Raymond de Pereille, colui che ricostruì Montségur. E proprio con Montségur sarebbe da identificare il castello di Monsalvat del poema di Chrétien, Trevrizent con uno dei perfetti catari, Herzeloide, madre del cavaliere puro, con Adelaide di Carcassonne, mentre il misterioso ispiratore di Wolfram, Kyot, sarebbe stato Guiot, diminutivo di Guillaume de Tudela, a cui si deve la prima parte della provenzale Canzone della crociata albigese. Wolfram von Eschenbach avrebbe quindi rielaborato un testo, impregnato di spiritualità eretica, dedicato ai nobili filocatari. Eppure Montségur non poteva essere il castello del Graal semplicemente perché non era ancora stato ricostruito all’epoca in cui fu scritto il Perceval di Chrétien (1182 o 1183), e quando venne elaborato il Parzival di Wolfram (1210 o 1220) non era ancora divenuto roccaforte degli albigesi.

 

I Celti, antica civiltà o moderna invenzione? 

A proposito di mistificazione, il caso del Nazionalsocialismo esoterico sembra abbastanza emblematico ed è stato oggetto di numerosi studi, almeno quanti ne sono stati dedicati ai miti nordici. Ad esempio, i Celti, così come vengono concepiti oggi, sembrano infatti più il frutto di una invenzione, prodotta da una storiografia europea settecentesca. Le antiche popolazioni, oggi così definite, non sembra avessero mai costituito una vera e propria organizzazione politica che li riunisse, o quanto meno, li identificasse come tali. Non veneravano le stesse divinità, non si coalizzarono mai contro un nemico comune, né mai dimostrarono di nutrire un sentimento di unità che li facesse sentire uno stesso popolo. Nel settecento i celti venivano prevalentemente identificati con i teutoni ed i cimbri e si riteneva fossero i progenitori della stirpe scandinava.

Con il fiorire delle identità etniche, gli intellettuali irlandesi, scozzesi, gallesi e bretoni fecero quell’operazione di re-invenzione della storia e della cultura che portò a rivalutare arte, poesia, religione, toponomastica e persino l’abbigliamento. In Francia e nel Regno Unito, come in Spagna, soprattutto nelle sue regioni di nord-ovest, come in Galizia, per poter attizzare il focolaio separatista, occorreva creare delle diversità dal contesto nazionale, e fornire a tali differenze un passato, possibilmente molto antico, sia dal punto di vista etnico che razziale, che Jane- Pierre Vernant avrebbe definito un “sistema di favole”. Sia Eric J. Hobsbawn, ne “L’invenzione della Tradizione”, sia Simon James, ne “I Celti, antica civiltà o moderna invenzione?”, denunziano come a cavallo tra il sette e l’ottocento, vennero scoperte, riscoperte o prodotte di sana pianta intere tradizioni culturali.

 

Ossian

Clamoroso l’esempio di James McPherson che, nel 1762, pubblicò “Fingal an ancient Epic” e l’anno successivo “Temora an Epic Poem”, sostenendo di averli tradotti da un originale manoscritto risalente al IV secolo contenente i poemi gaelici del leggendario bardo irlandese Ossian (variante scozzese di Oisin). Sebbene questa versione in prosa del ciclo feniano, spacciata per l’opera di un mitico poeta ossiano, fosse essenzialmente frutto di manipolazioni ed il suo stile rivelasse l’influenza della Bibbia e di Milton, ricevette un’accoglienza entusiastica perché rifletteva quella sensibilità pre-romantica fatta di paesaggi solitari e selvaggi, eroi ed eroine pronti a sacrificare la vita per nobili cause.

 

Le Tribù perdute di Israele

Il famoso kilt risale a non più di tre secoli fa, quando venne proposto all’Unione del 1707 da Thomas Rowlinson. Soltanto il tartan, la stoffa a quadretti, pur provenendo dalle Fiandre, era già nota in Scozia nel XVI secolo. I diversi colori dei clan sono successivi e presentati ad una rappresentazione di Sir Walter Scott, l’autore di Ivanoe.

Tudor Parfitt, in “Le Tribù perdute di Israele” (Newton Compton, Roma 2004), riferisce che gli scozzesi, nel pensiero inglese, venivano associati agli ebrei. Secondo una certa teoria i celti sarebbero stati i discendenti di Gomer, nipote di Noè, il quale si supponeva avesse generato i popoli dell’Asia Minore e dell’Europa. Si pensava parlassero una forma di ebraico evolutosi in gaelico. I costumi religiosi dei druidi sarebbero stati allora mediati da quelli degli antichi patriarchi. Cosicché i celti, per i loro particolari talenti ed una certa riconosciuta genialità, vennero collegati, nell’immaginario, alla storia delle tribù perdute di Israele. Tanto che verso la fine del XVIII secolo erano visti in opposizione, da un lato, ai tedeschi e, dall’altro, al classicismo di area mediterranea.

 

La pietra del destino

Uno degli argomenti più graditi ai sostenitori della discendenza della famiglia reale d’Inghilterra dalla casa di Davide è la cosiddetta pietra del destino, la pietra di Giacobbe sulla quale avviene la cerimonia di incoronazione dei monarchi britannici. Questa pietra sarebbe stata portata da Geremia, da Baruc e da una figlia del re di Giuda Sedecia in Irlanda, dove venne chiamata Lia –Phail.

Più o meno intorno al 700 a. C. i Tuatha de Danaan, ovvero tribù di Dan, si stanziarono nell’isola verde. Successivamente vennero raggiunti da una colonia della stirpe di Zara e, verso il 569 a. C. dall’anziano profeta che accompagnava la principessa, insieme con Simon Brach, Breck, Berech, Berach, o Baruc. La principessa si chiamava Tephi, o più correttamente forse Tea-Tephi, ed era andata in sposa ad un principe d’Irlanda, al quale aveva già dato un erede. Si dice che la comitiva trasportasse anche un’arpa, un’arca, ed una pietra.

Chi crede fermamente nella genealogia davidica del Regno Unito, fa derivare “sassoni” dalla contrazione “Isaac’sons”, ovvero figli di Isacco. Ne conseguiva che si sarebbero dovute rintracciare delle caratteristiche ebraiche anche nel contesto della lingua inglese, così come in quella celtica: l’inglese sever (separare) allora corrisponderebbe all’ ebraico shaver; hob (mensola) a bab; gum (gengiva) a gamBritish deriverebbe dall’ebraico brit (alleanza)  ed ish (uomo), britannia da brit e onia (nave), Danimarca dalla tribù di Dan, alla stregua di Macedonia, Dardanelli, Danubio, Dunbar…

 

Il sacerdozio druidico

Eppure, per quanto riguarda la lingua celtica in specie, le testimonianze non possono che definirsi davvero carenti. La tendenza perciò fu quella di attribuire ai celti tradizioni letterarie soprattutto di origine irlandese. La qualcosa era dettata dalla necessità di opporre agli inglesi di ceppo anglosassone, e quindi di origine germanica, una tradizione nettamente differente ed autoctona. Senza contare che né gli uni né gli altri hanno radici solide e sicure.

Il sacerdozio druidico sarebbe un’altra invenzione, dei monaci irlandesi. Probabilmente i druidi erano una casta di intellettuali, di cui si circondavano i potenti. I monaci cristiani che dovettero competere con queste influenti figure fecero ricorso al luogo comune, sostenuto dai vari Cesare, Plinio, o Diogene Laerzio, secondo cui, prima dei filosofi, ci sarebbero stati i maghi e che questi, presso i galli, si sarebbero dovuti identificare con i druidi.

 

I bagaudi

A riscoprire il mito nazionale francese sarebbe stata addirittura la grandeur di Napoleone III. Prendendo spunto dal “De Bello gallico”, si produsse la suggestione di un popolo unitario, mentre invece tratti diversissimi ebbero Boi, Carni, Cenomani, Libui, Salluvi, Lingoni, Orobi, Senoni, Insubri, già solo nella cosiddetta Gallia Cisalpina; differenti riti funebri, diverse le armi, differente abbigliamento. Gli Arverni della Gallia Transalpina non condividevano granché con Elvezi, Sequani, Edui, Biturgi, Britanni, Veneti, Galati, Nori, Scordisci, Celtiberi, ecc.

Un esempio per tutti, i bagaudi si caratterizzavano soltanto per l’appartenenza alla classe meno agiata dei contadini. Le popolazioni continentali, del centro Europa, se avevano qualcosa in comune, questo qualcosa non bastava a costituire una popolazione unica, sia pur nel tentativo di opporre alcunché di omogeneo alla cultura romana, anch’essa solo apparentemente monolitica, ma in realtà frutto della coesistenza e di un irripetibile rimescolamento. La romanità era più che altro una notazione del diritto giuridico. Lo stesso concetto di etnia, di sangue, a quei tempi, non era praticato, e soprattutto dai romani, che dagli etruschi avevano ereditato la tendenza ad acquisire nuovi cittadini (da umbri, sabini, falisci, latini, ecc.), così come nuove divinità, in un estremamente tollerante sincretismo. Quali che fossero le sue origini, chiunque poteva accedere ai privilegi della romanità.

 

La Legione Perduta

Decisamente interessante, in quest’ottica, appare oggi la tetralogia di Harry Turtledove, inaugurata con La Legione Perduta, storia di un gruppo di legionari romani trasportato magicamente in un mondo parallelo.

 

La concezione evoliana

A dare più corpo e sostanza alla tradizione dell’urbe c’era stato lo Julis Evola dell’Imperialismo pagano, tenuto ai margini, proprio negli anni del fascismo, perché troppo sofisticato, eterodosso, e nient’affatto conciliante con la Chiesa dei Patti Lateranensi. La critica del mondo moderno degenerato, omologante, tecnocratico, relativista, e l’interesse per ermetismo e filosofie orientali, misticismo e gnosticismo, antisemitismo, anticomunismo, antiamericanismo, così come il senso di emarginazione ed il culto elitario, lo hanno fatto considerare un pensatore scomodo, assimilato a Céline, Guénon, Benn, Pound, Eliade.

Ad esempio, la concezione evoliana di razza non era di tipo biologico, bensì spirituale, quasi un’idea di vocazione che si coniugava con le speculazioni ariosofiche tedesche e l’ipotesi fisionomica di un consolidamento dell’anima della razza fino ad un deposito nei tratti somatici.

 

Apocalittici e integrati

“A lato delle grandi correnti del mondo, esistono ancora individualità ancorate nelle terre immobili. Sono, di massima, degli sconosciuti che si tengon fuori da tutti i trivi della notorietà e della cultura moderna. Essi mantengono le linee di vetta, non appartengono a questo mondo – pur essendo sparsi sulla terra e spesso ignorandosi a vicenda – sono uniti invisibilmente e formano una catena infrangibile nello spirito tradizionale. Questo nucleo non agisce: ha solo la funzione a cui corrisponde il simbolismo del fuoco perenne. In virtù di essi, la Tradizione è presente malgrado tutto, la fiamma arde invisibilmente, qualcosa connette sempre il mondo al sovramondo… In numero maggiore esistono individualità che, pur non sapendo in nome di che cosa, provano un bisogno confuso ma reale di liberazione. Orientare tali persone, metterle al riparo dai pericoli spirituali del mondo attuale, condurle a riconoscere la verità, e rendere assoluta la loro volontà acché alcune di esse possano raggiungere la falange delle prime, è ancora il meglio che si può fare. Ma si tratta, anche qui, di cose che riguardano una minoranza… Se un’azione efficace e realizzatrice generale oggi come si è detto ha scarsissime possibilità, alla schiera, cui si è accennato, resta sempre la difesa interna. Infine va considerata una terza possibilità. Per alcuni, la via dell’accelerazione può essere la più adatta per avvicinarsi alla soluzione… Si tratterebbe di assumere, presso ad uno speciale orientamento interiore, i processi più distruttivi dell’èra moderna per usarli ai fini di una liberazione. Come in un ritorcere il veleno contro se stesso o in un cavalcare la tigre.”(Julius Evola: “Rivolta contro il mondo moderno”, Roma, 1969)

 

Il metodo astorico

Gli esoterici, i differenziati, come li definisce Furio Jesi in “Cultura di destra”, come gli uomini della Tradizione di Evola, sono destinati per loro stessa vocazione, in una fase di isolamento culturale e strategico, a seguire le vie del distacco dalla politica e dall’ascesi. Evola teorizza un metodo astorico di analisi del mito; replicando alle accuse di antistoricismo nell’Introduzione alla terza edizione di “Rivolta contro il mondo moderno”, ribadisce che la sua ricostruzione della dicotomia tradizione/modernità contiene coordinate storiche (facendo risalire le prime forme di decadenza in senso antitradizionale addirittura all’VIII-VI secolo a. C.), ma che comunque, nel trascendere i confini della storia, per accedere alla leggenda, le categorie storiche non rivestono alcuna utilità. La differenza qualitativa tra il tempo storico e quello mitologico contrassegnano nettamente i confini della coscienza. Modernità e tradizione assumono le caratteristiche di “due categorie aprioriche della civiltà”. “Le verità che possono far comprendere il mondo della Tradizione non sono quelle che si imparano e che si discutono. Esse o sono, o non sono”. Inevitabile corollario di questo metodo diviene la libera manipolazione di testi o la loro falsificazione. E’ il caso de “I Protocolli dei savi anziani di Sion”. Questa psuedo-identificazione mitica potrebbe corrispondere ad una cattiva imitazione, come ebbe a sottolineare Alberto Savinio in “Sorte dell’Europa”, quando definisce un fenomeno di pompierismo quello di affidare il proprio destino ad un uomo che ha dipinto i quadri che ha dipinto Adolf Hitler.

Le diverse sfumature della mistificazione, del fantastico e della leggenda come della storia, appartengono ad una vicenda complicata da varie stratificazioni del mito e della sua variante falsificata. E ciò non vale solo per le argomentazioni antisemite dei “Protocolli”, dell’ebreo errante o delle tribù perdute di Israele.

 

L’ invenzione della tradizione

Eric J. Hobsbawn e Terence Ranger, nel 1984, si espressero nei termini più espliciti di una invenzione della tradizione. Raccogliendo documenti relativi alle inquietudini contemporanee, hanno dimostrato come queste abbiano potuto influenzare le modalità con cui si tende ad interpretare il passato. Le società rivelano la tendenza a ricostruire il proprio passato in termini genealogicamente proficui per il mantenimento di un determinato modello. In ciò contribuisce la letteratura in genere e la narrativa in particolare, anche a purificare eventualmente quegli elementi indesiderati, da eliminare, dimenticare, rimuovere. Ad un meccanismo analogo si ricorrerebbe per fornire delle valide spiegazioni sull’altro da sé, sul diverso, sulle minoranze, e sulle opposizioni. Dall’insieme degli avvenimenti si scelgono prevalentemente quelli che sono favorevoli o utili al discorso. L’evoluzione del mito, se estremizzato sino alla paranoia persecutoria o megalomanica, può indurre a riconoscere cospirazioni o potenze in ogni espressione della quotidianità.

 

La Tradizione e le Tradizioni

René Guénon, in un suo saggio del 1936 (ripubblicato in “La Tradizione e le Tradizioni”, Ed. Mediterranee, Roma, 2003), aveva parlato di “contraffazione” dell’idea tradizionale. “Si potrebbe anche dire che tale caratteristica si ritrova, in modo assai più generale, e sotto molteplici forme, in tutto l’insieme di quel che costituisce propriamente la civiltà moderna, dove, quale che sia il punto di vista sotto cui la si considera, tutto appare come sempre più artificiale, snaturato e falsificato; molti di coloro che fanno oggi la critica di questa civiltà ne sono d’altronde colpiti, anche allorché essi non sanno guardare più lontano e non hanno il minimo sospetto di quanto si nasconde in realtà dietro a tutto questo. Sarebbe peraltro sufficiente, ci sembra, avere un poco di logica per dirsi che, se tutto è diventato così artificiale, anche la mentalità cui corrisponde questo stato di cose non può esserlo di meno del resto, cioè che anch’essa dev’essere fabbricata e non è affatto spontanea; e, quando si sarà fatta questa semplice riflessione, non si potrà più fare a meno di veder moltiplicarsi da ogni parte e pressoché indefinitamente gli indizi concordanti in tal senso; ma bisogna credere che malauguratamente è ben difficile sfuggire così completamente alle suggestioni alle quali abbiamo fatto allusione, e alle quali, in definitiva il mondo moderno in quanto tale deve la sua esistenza… Malgrado tutto, chi dice contraffazione dice per ciò stesso parodia; i due termini sono quasi sinonimi; vi è poi invariabilmente, in tutte le cose di questo genere, un elemento grottesco, che può essere più o meno evidente, ma che, in ogni caso, non dovrebbe sfuggire ad osservatori appena un poco perspicaci, se tuttavia le suggestioni che essi subiscono inconsapevolmente non abolissero a tale riguardo la loro perspicacia naturale. E’ questo il punto debole a causa del quale la menzogna, per quanto abile essa sia, non può fare altrimenti che tradirsi; e, beninteso, anche questo è un marchio d’origine, inseparabile dalla contraffazione stessa, e che normalmente deve permettere di riconoscerla come tale. Se si volesse citare qui esempi presi fra le diverse manifestazioni dello spirito moderno, sicuramente non si avrebbe che l’imbarazzo della scelta, dagli pseudo riti civili e laici che han preso tanto sviluppo dappertutto in questi ultimi anni, e che mirano a fornire alla massa un sostituto puramente umano dei veri riti religiosi, fino alle stravaganze di un sedicente naturismo che, nonostante il suo nome, non è meno artificiale, per non dire antinaturale, delle inutili complicazioni dell’esistenza contro le quali esso ha la pretesa di reagire con una ridicola commedia, il cui vero proposito è d’altronde quello di far credere che lo si confonde con l’animalità; e non è forse persino il più semplice riposo dell’essere umano ad essere attualmente minacciato di snaturamento grazie all’idea contraddittoria, ma conforme all’egualitarismo democratico, di una organizzazione del tempo libero! …tutte queste contraffazioni pseudo iniziatiche dell’idea tradizionale (sono) una miscela più o meno coerente, assai meno che più, di elementi in parte presi a prestito e in parte inventati, il tutto essendo dominato dalle concezioni antitradizionali proprie allo spirito moderno, e che di conseguenza non possono in definitiva servire che a diffondere queste concezioni facendole passare per tradizionali, vale a dire per l’esatto contrario di quel che esse sono in realtà, senza parlare dell’imbroglio consistente nello spacciare per iniziazione quel che in realtà ha un carattere puramente profano, per non dire profanatorio. Se si facesse poi notare, come una sorta di circostanza attenuante, il fatto che c’è quasi sempre in questo, malgrado tutto, qualche elemento la cui provenienza è realmente tradizionale, risponderemo così: ogni imitazione, per essere accettabile, deve naturalmente prendere qualcuno dei tratti di quanto essa simula, ma è proprio questo che ne aumenta ancor di più il pericolo, la menzogna più abile ed anche la più funesta, non è forse precisamente quella che mescola in modo inestricabile il vero con il falso, sforzandosi così di far servire l’uno al trionfo dell’altro?”

 

Il fondamento mistico dell’autorità

Contraffazione, pseudotradizione,  antitradizione, metatradizione, per il pensiero psicopatologico alogico, e quindi magico, possedendo un filo conduttore in cui si crede fermamente, la conseguente realizzazione viene resa vera da qualsiasi segno. Il rischio di una lettura rigida e di una interpretazione paranoide trascura l’intrinseca indeterminatezza qualitativa delle figure mitiche. Un’indeterminatezza particolarmente netta in quanto assolutamente essenziale a quella vaghezza di situazioni necessaria ad universalizzare e porre fuori dal tempo i contesti, incoraggiando, senza pretendere di ridurne l’ambiguità, parziali disvelamenti della verità.

Simili tentativi di decodificare il messaggio tradizionale del racconto potrebbero indurre ad una sorta di “legittimazione performativa” del mito, con esemplificazioni in ideali politici, società impostata sulle caste, razzismo, ecc. Essendo dotato di un senso sempre attualizzabile il mito contiene un imperativo indiscutibile, quale quello che Montaigne avrebbe chiamato il “fondamento mistico dell’autorità”.

 

Il regno del Signore degli anelli 

Oltre ad allegoria di potenza, l’anello è simbolo di giustizia, misurata dalla verga della misura. Chi possiede il regolo, il metro, detiene potere ed autorità nel governare.

L’eterna ricerca, vuoi del Graal, vuoi dell’Anello, appartiene, in ultima analisi ad un unico contesto capace di guidare l’evoluzione individuale sino all’illuminazione, come dimostrano la poetica di Alfred Tennyson o la musica di Richard Wagner.

Per quanto le storie del sacro calice siano per lo più associate ai cavalieri di re Artù sperduti nella Terra Desolata, questo genere di racconto si estenderebbe a molti altri tipi di ricerca e quindi a molti personaggi della fiaba, come Cenerentola o la Bella addormentata, o della leggenda, quali Robin Hood o Dracula.

 

Il marchio di Caino

“Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre/ e invoca qualcosa che non esiste?/ perché così avviene?/ Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre./ Ma perché la voce esiste?” Par Lagerkvist

A parte l’indiscutibile fascino di ogni narrazione, gotica, gialla, fantastica, fantascientifica, vi si può intravedere la matrice unica del mistero della quest.

Sin dall’epoca dei sumeri e degli sciti, l’anello fu simbolo di unità, eternità e del tutto, precursore dello stesso Ouroboros, il serpente che si morde la coda.

Se al suo cerchio si unisce una lancia verso l’alto, indica Marte ed il genere maschile, con una croce rivolta verso il basso, Venere e la femminilità. Se la croce si applica sopra, diventa segno di potere regale, se collocata al centro, suddivide lo spazio ed è un emblema rosicruciano.

Sebbene spacciato per il marchio di Caino, costituisce pur sempre il più arcaico distintivo degli unti dal signore. I sovrani delle prime dinastie erano detti Dragoni proprio perché unti dal grasso di un animale mitico chiamato mashiach. I re gaelici erano i Pen-dragoni, testa di drago. Emblema di saggezza, il drago era “l’epitome dello spirito di dio che aleggiava sulle acque del tempo, mentre il Graal era il segno della perpetuazione del sangue”, afferma Laurence Gardner ne “Il Regno del signore degli Anelli”.

 

Draupnir

Il simbolo rosacroce rappresentava così la linea dinastica ereditata per via patriarcale, mentre con l’immagine del calice si alludeva al grembo della Regina ed al sangue materno. L’anello è sostanzialmente una fessura, un simbolo sessuale femminile.

“Questa pietra non solo attrae direttamente gli anelli di ferro, ma comunica il proprio potere agli anelli stessi che fanno quel che fa la pietra. Attraggono cioè, altri anelli, – ha scritto Platone in “Ione”- sicché si formi a volte una lunghissima catena di pezzi di ferro e di anelli pendenti l’uno dall’altro”.

L’anello della tradizione era Draupnir, che significa appunto gocciolante, per cui è in grado di esercitare potere su tutti gli altri. A detenere quest’unico anello primordiale, rappresentante della sovranità solare, nella saga nordica di Volsunga, è Odino, come Anu nella mitologia sumerica, e questo gli concede di governare sui reami planetari.

“Un anello per domarli, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nel buio incatenarli”.

 

Il libero potere dell’immaginazione

“Fin tanto che la necessità comanda ed il bisogno stringe, l’immaginazione è legata con stretti vincoli al mondo reale; soltanto quando il bisogno è appagato, essa sviluppa il suo libero potere. Ma prova anche una libertà interiore, perché ci lascia vedere una forza che si mette in moto da se stessa” ha affermato Friedrich Schiller nelle “Lettere sull’educazione estetica dell’uomo”.

 

Il senso della vita: il giro dell’oca  

Mentre Serge Brussolo, l’ideatore di Peggy Sue (Il giorno del cane blu, Il sogno del demonio), dichiara: “Il narratore di storie è colui che cambia una realtà stagnante, smorta e assurda in un destino.- E riesce a far credere improvvisamente che la vita ha un senso e che può condurre da qualche parte”. Lo scopo di uno scrittore è per lui quello di “giocare a scacchi con il lettore. Bisogna che la dimostrazione finale abbia una certa bellezza intellettuale. Che il giro dell’oca abbia la seduzione di una formula matematica ma magica”.

 

Fantascienza

C.S. Lewis, nel saggio “Altri Mondi”, riconosceva che “la storia stessa vi impone una sua morale, che si scopre mentre si scrive il racconto… e questo vale per qualsiasi genere di narrativa, tanto più per la fantascienza che spesso tratta di argomenti molto più seri di quelli trattati dalla narrativa realistica: problemi reali sul destino umano e cose del genere”.

Nel suo saggio sulla Fantascienza C.S. Lewis cataloga tali racconti in varie sottospecie: quali i satirici o profetici, in cui “l’autore critica tendenze del presente immaginandole trasportate (prolungate direbbe Euclide) al loro limite logico. E’ il caso di Notizie dal mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell”.

“La finzione dell’ingegnere” è quella operata “da persone primariamente interessate ai viaggi spaziali, e ad altre tecniche avveniristiche, come reali possibilità dell’universo attuale” e allude a Verne (20000 leghe sotto i mari), H.G. Wells ( I primi uomini sulla luna, Le corazzate terrestri), Arthur C. Clarke (Preludio allo spazio). In questa categoria però Lewis inserisce pure il viaggio immaginato da Dante agli antipodi, attraverso il centro della terra, e quello presentato da Athanasius Kircher in “Iter Extaticum Caeleste”.

Nel gruppo dell’escatologico interessa il destino finale della nostra specie: La macchina del tempo di H. G. Wells, Infinito di Olaf Stapledon, L’infanzia finisce di Arthur C. Clarke. La sottospecie però che più lo affascina è quella in cui si esprime “semplicemente un impulso immaginativo vecchio quanto la razza umana, che opera nelle speciali condizioni del nostro tempo. In quest’ultima categoria, rappresentata dalla pura evasione e dal massimo della mitopoiesi, fantascienza e fantasy si accomunano quasi naturalmente per trovare illustri precursori ed antenati già nell’epopea di Gilgamesh o nell’epica greca. Il passaggio  alla fantascienza da Omero a 2001 Odissea nello spazio è relativo al fatto che un tempo per l’uomo ellenico il mediterraneo delle peregrinazioni di Ulisse era come per noi oggi il cielo stellato. In fondo ciò che conta nelle narrazioni mito-fantascientifiche è la suggestività, la bellezza, la meraviglia.

 

La qualità mitica

A questo proposito, nel saggio “Lettori e Letture”, Lewis osserva che “il mito è sempre, nel vero significato della parola, fantastico. Tratta di cose impossibili e soprannaturali”. Si ricordano solo quelli che più rimangono impressi, che “ si stagliano come grandi olmi: Orfeo, Demetra e Persefone, Balder, Ragnarok, o la creazione del Sampo di Ilmarinen. Inversamente, certe storie che non sono dei miti nel senso antropologico, essendo stati inventati da individui in epoche completamente civilizzate, posseggono quella che io chiamerei la qualità mitica. Sono per esempio, le trame di Dr. Jekill e Mr. Hyde, La Porta nel Muro di Wells o Il castello di Kafka. Così sono concepiti il Castello di Gormenghast nel Titus Groan del signor Peake o gli Ent e Lothlorien ne Il Signore degli Anelli del professor Tolkien”.

“Includerei alcune parti dell’Odissea, l’Inno ad Afrodite, molto del Kalevala e di The Faerie Queene, qualcosa di Malory (ma nessuna delle sue opere migliori) e più di Huon, parti di Heinrich Von Ofterdingen del Novalis, The Ancient Mariner e Christabel, Vathek del Beckford, Jason di Morris e il Prologue (poco d’altro) dell’Earthly Paradise, Phantastes, Lilith e The Golden Key di MacDonald, Worm Ouroboros di Eddison, Lord of the Rings di Tolkien e quella sconvolgente intollerabile e irresistibile opera che è Voyage to Arcturus di David Lindsay. Anche Titus Groan di Mervyn Peake. Qualcuno dei racconti di Ray Bradbury forse ci rientra”.

E concludeva con l’assioma: “Se i buoni romanzi sono commenti sulla vita, i buoni racconti di questo genere (molto più rari) sono vere aggiunte alla vita, danno, come certi rari sogni, sensazioni che non abbiamo mai avuto prima e allargano le nostre idee sull’estensione dell’esperienza possibile”.

 

Il creatore in seconda

A proposito di mitopoiesi, nella conferenza “Tre maniere di scrivere per la gioventù”, riporta la teoria junghiana secondo la quale “la fiaba libera gli archetipi che dimorano nell’inconscio collettivo, e quando leggiamo una buona fiaba, obbediamo all’antico precetto conosci te stesso”. Tale tesi la affianca a quella di Tolkien del “creatore in seconda”, l’uomo cioè creato a immagine e somiglianza del Creatore, non può fare a meno di esercitare “con maggiore pienezza la sua funzione d’ imitarlo, declinando e dilatando la forza concentrata nell’incipit del IV Vangelo:”In principio era il Verbo…”. L’istinto umano alla creatività è la mitopoiesi, istinto nobile perché di origine divina, istinto che si esprime con il corretto uso della fantasia.

“Caro signore, -gli si era poeticamente rivolto Tolkien- benché a lungo alienato,/ l’uomo non è perduto né del tutto cambiato./ Forse è in disgrazia, non detronizzato,/ e della sua signoria i cenci ha conservato:/ l’uomo, il subcreatore, questa riflessa luce,/ passando per il quale dal Bianco si produce/ di colori una gamma, senza fine in viventi/ forme commiste e scambiate tra le menti./ Le fessure del mondo noi abbiamo riempito/ di Elfi e Folletti, ma pure costruito/ Dei e templi a partire dall’ombra e dalla luce,/ sparso dei draghi il seme: fu un’insolenza truce?/ Era il nostro diritto, che non è decaduto:/ creiamo nella legge che tali ci ha voluto”.

 

L’askesis

La letteratura fantastica alta, quella dotata della qualità mitica arricchisce la vita, allargando “le nostre idee sull’estensione dell’esperienza possibile”, stimola “l’oscuro senso di qualcosa al di là della sua portata e che lungi dall’offuscare e svuotare il mondo attuale, gli da’ una nuova dimensione di profondità…”. Il lettore “che legge la fiaba desidera ed è felice dello stesso fatto di desiderare. Perché la sua mente non si è concentrata su se stessa, come spesso succede nel racconto più realistico… La fantasia pericolosa è sempre superficialmente realistica… Ci sono due generi di bramosie: la prima è un’askesis, un esercizio spirituale, la seconda una malattia”.

 

Il gioco

La lettura corrisponde anche ad una particolare declinazione dell’istinto umano per il gioco, inteso come apprendimento di regole fondanti, indipendenti, ma necessarie per far esperienza del mondo alternativo grazie alla “sospensione dell’incredulità” di cui parlava Coleridge.

“Gioco in quanto attività estetica- scrivono Monda e Simonelli – che qualifica l’uomo al massimo grado del suo sviluppo intellettuale e lo eleva sopra le sue componenti più legate alla natura”.

“Guardare i girasoli di Van Gogh- ad esempio, per Michael Ende- ha mutato più cuori di qualsiasi proclama politico”.

 

Il bestiario di Ende 

Gli autori de “Gli Anelli della Fantasia” individuano negli esseri fantastici che compaiono nell’opera di Ende uno dei suoi principali poli d’attrazione. “Un bestiario lussureggiante, indefinibile, in cui confluiscono tradizioni culturali e retaggi personali manipolati e ricreati secondo un gusto talmente pirotecnico da rendere impossibile l’individuazione di tutti i riferimenti precisi”: Troll a quattro facce, Testapiedi con enormi crani e gambe sottilissime, Ombricoli fatti di ombre, Fauni con zoccoli da montone, Fantini su coleotteri, Cervi che indossano frac, Dualini divisi, Pozzangherini che si sciolgono camminando, e poi il maestoso leone Graograman che di notte si trasforma in una statua di pietra.

“Non più un lieve e capriccioso disegno ornamentale, – scrive Ladislao Mittner- ma l’atto stesso della fantasia che si sbizzarrisce volutamente dietro ai particolari, sovrapponendoli e anche sostituendoli a ciò che sembra l’essenziale”. Per la figura di donna Aiuola si è riferito alle tradizioni austriache e tedesche della Donna del raccolto ed alla cosiddetta Madre del grano di Slesia e Stiria, con identificazione tra l’ultimo covone e la donna che vi si accomoda sopra, o agli alberi di Maggio ed allo spirito della vegetazione, più che alla Bona Dea ed alla romana Flora. Sembrerebbe quasi una figura dei tarocchi. Il corteo di fantasmi nel Paese della Mala genia, riecheggia le Narren prozession barocche. La mula Iaia ricorda la biblica asina di Balaam (Numeri,22) o quella che porta in groppa il salvatore a Gerusalemme.

 

L’itinerario di formazione

La scelta di un protagonista sprovveduto offre l’opportunità narrativa di istruire il lettore su un mondo sconosciuto seguendo lo schema classico dell’itinerario di formazione. Analogamente Bilbo e Frodo vedono concretizzarsi vicende di cui erano vagamente a conoscenza perché oggetto di racconto a loro recitato in una precedente quiete domestica. E lo schema dell’evasione improvvisa dal quotidiano è comune al Peter Pan di Barrie, come all’Alice di Lewis Carroll, a The House of the Wolfings, come a Lontano dal pianeta silenzioso di Lewis.

 

Sword and sorcery

L’iconografia del genere letterario definito sword and sorcery, coltivato da Lyon Sprague de Camp, autore picaresco ed editore del Conan il cimmero di Robert Howard e del ciclo di Cthulhu di H. P. Lovecraft, si va a trasfigurare nelle nobiltà o rarefazioni del giovane Wart di Terence Hambury White.

Nel corso del tempo si sono delineate due tipologie di fantasy: una più spregiudicata, heroic, legata al gusto pulp, all’americana, con prevalenza di scene d’azione a tinte forti o di situazioni grottesche (De Camp, Vance, Leiber, Moorcock), l’altra, più epica, dominata dai colori pastello, erede della letteratura vittoriana (Dunsany, Eddison, Tolkien), modellata sul medioevo europeo, con escursioni speculative ed impronte genealogiche e cartografiche.

L’esperienza pratica della science fiction tratta spesso storie alternative per riflettere sulla realtà storica e sociale (Bradbury, Asimov, Dick, Gibson).

 

Quest and fellowship

Tra i post-tolkieniani (Ursula K. Le Guin, David Gemmell, Robert Jordan, Gorge Martin), il più popolare sembra essere David Eddings con la pentalogia di Belgariad, il cui protagonista, Garion, come Harry Potter, è un adolescente orfano ed inesperto, il quale deve scontrarsi con un dio rinnegato, membro di un pantheon di sette entità creatrici. Analogo sembra il caso di David Gemmell, autore de Il Lupo nell’ombra e

 

L’ultimo dei guardiani.

La vicenda narrata da Eddings si snoda attorno ai temi più classici della saga e dell’epica, quello della “quest” e della “fellowship”. La ricerca di un oggetto o di un luogo risale al tempo delle tavolette babilonesi sulle avventure di Gilgamesh, per proseguire con il vello d’oro di Giasone, fino al Graal, e simboleggia il viaggio interiore dell’uomo alla ricerca di se stesso. Si tratta quindi sempre di un pellegrinaggio iniziatico attraverso gli stati molteplici dell’essere, unico viaggio capace di consentire un intimo perfezionamento.

L’altro argomento caratteristico è il gruppo dei diversi in cui ognuno manifesta una delle qualità della perfezione che si ottiene solo da un insieme coeso, e riecheggia il tema del clan e l’epica dei Mannerbunde.

La fantasy si candida così a svolgere quella che, un tempo, era la funzione originaria del mito, filtrata attraverso una prospettiva priva di storicità, con buona pace dei vari Dumézil, Eliade, o de Vries. A questa concezione esoterica del fantastico si perviene però solo dopo un notevole sforzo di approfondimento. Il tentativo resta pur sempre quello di fornire un modello di cavalleria che possa migliorare la condizione umana ed elevarla quanto meno verso una nobiltà d’animo.

“Il valore letterario di questa saga – scrivono Del Corso e Pecere – consisterebbe addirittura nel forzare i limiti della forma romanzo (rappresentata qui dal nome di Emilio Salgari…) dischiudendo gli abissi del tempo mitico e lasciando che la successione degli eventi avventurosi venga riassorbita in una sempre maggiore atmosfera di staticità temporale, scintillante di simboli, in una perfetta sintesi di pura sequenza avventurosa e ierofania”.

Eddings compone un decalogo del genere fantasy che parte dalla scelta della fonte e dell’ambientazione, definita teologica, per coinvolgere l’aggeggio magico, inteso come stimolo alla ricerca. Se l’eroe prescelto non ha la più pallida idea di quanto gli succede attorno, offre lo spunto allo scrittore di spiegare più nei dettagli la cosa ai lettori. Completano il quadro poi gli stereotipi del mago o della maga, dell’eroina, del cattivo, dei componenti della compagnia, del re e della regina, ecc.

 

Il parasillogismo 

Riconoscendolo come discorso persuasivo, ma variamente interpretabile, nei dialoghi platonici, il mito viene considerato con disincanto. Nel Protagora queste caratteristiche conducono agli abusi sofistici cui si contrappone il logos socratico. Mentre nella Repubblica viene proposto di sfruttare l’efficacia persuasiva del racconto mitico per comunicare valori indiscutibilmente legittimi, senza sostituirsi ad una consapevolezza etica o metaforica, e senza dimenticare la necessità di una discussione autonoma sui fondamenti di quei valori cui il mito alluderebbe simbolicamente.

Al di là della forma, dell’iconografia, della scenografia, la fantasy cavalleresca risponde ad un intuito archetipico, propone codici simbolici complessi, suggerisce letture ierofaniche del reale, ma, – Voglino conclude in questo modo la formulazione dell’introduzione ai romanzi di Eddings –  ciò avviene al di fuori di qualsiasi dialettica con un apparato tradizionale definito. Il parasillogismo conduce alla rivalutazione del mito del sangue e della regalità sacra e di una dottrina delle età del mondo dagli esiti apocalittici propri della Gotterdammerung dell’esoterismo nazista.

 

L’autoevidente

“Forse il rischio maggiore, dal punto di vista dei critici della cosiddetta civiltà dell’immagine non è la presenza nel nostro mondo di tante immagini stupide, ma piuttosto l’effetto di retroazione che alla lunga esse possono avere anche sulle nostre immagini interne, così da rendercele sempre più estranee nella loro costante, ma inabissata familiarità. O, insomma, il vero rischio è di nascondere la complessa totalità dell’immagine interna autoevidente, fonte di esperienze sempre aperte al nuovo, dietro a un simulacro riduttivo che si spacci per autoevidente, essendo  in realtà solo risaputo” (Emilio Garroni:”L’arte e l’altro dall’arte-saggio di estetica e di critica”, Roma-Bari, 2003).

 

La metafisica degli elfi

L’arte, per Tolkien, è un riflesso della creazione e trova un modello nell’incantesimo degli Elfi, il solo in grado di produrre la fusione tra artefatto e spettatore, liberandoli da ogni ossessività. In quanto prodotto della fantasia possono infatti insegnare quale sia l’aspirazione ed il desiderio della fantasia medesima e fare da tramite tra l’arte umana ed il modello originario della subcreazione.

“Gli elfi di Tolkien, primogeniti immortali del creatore, sono caratterizzati da un distacco e da una crepuscolare visione del mondo sub specie aeternitatis; consacrano le proprie esistenze alla cura delle creature naturali, all’invenzione e alla trasmissione di canti e leggende, alla produzione di artefatti magici in cui si rispecchia mimeticamente la grandiosità della creazione divina. – scrivono Del Corso e Pecere – Si contrappongono con ciò agli uomini inquieti e mortali, più facili a subire la tentazione del potere e di quella schiavitù dell’ingegno costituita dalla tecnologia: agli uomini esseri caduti per eccellenza, la cui caratteristica primaria, la morte, costituisce l’enigma fondamentale della cosmogonia fantastica di Tolkien, in bilico tra punizione, da parte del creatore, per un loro previsto peccato d’orgoglio (narrato nel Silmarillion) e indeterminata prospettiva di una loro possibile, diversa destinazione. Se gli uomini assomigliano insomma a quelli del mondo reale, gli elfi, con i loro tratti caratteristici, incarnano certamente i valori più alti del fantastico tolkieniano: ne rappresentano una tensione metafisica, soddisfatta attraverso l’arte e sistematicamente frustrata dal mondo reale, che si radica nell’ambiente culturale vittoriano e inkling in cui maturano le opere di Tolkien. Nello stesso tempo, gli elfi sono inclini a un atteggiamento di conservazione nostalgica e di chiusura rispetto al mondo, che conduce fatalmente al loro abbandono della Terra di Mezzo, esito finale non solo del Signore degli Anelli ma anche di tutte le storie di Tolkien: come se in quello stesso mondo fantastico dovesse riprodursi il gesto di allontanamento dal mondo da cui nasce il fantastico di Tolkien. Le visioni diverse incarnate dalle razze di elfi, uomini e hobbit conferiscono così alla sua opera uno spessore autenticamente polifonico. In questa prospettiva… si può riscontrare tutta l’ambiguità del rapporto fantastico-reale proprio della narrativa del professore-visionario di Oxford”.

 

Trovare il senso

Per Northrop Frye (“Mito, fiction e traslazione”), il vero oggetto dell’attenzione di chi legge un’opera di fiction non è, nonostante le apparenze, la sequenza degli accadimenti, quanto la decodificazione di un preciso punto focale dove trovare il senso del tutto, “renderci più consapevoli del tema”, “vedere tutti i vari casi come sue manifestazioni”, condividere insomma un’esperienza di crescita interiore.

Forse rappresentare perfettamente un mondo separato da ogni cosa, ma in particolare dal senso e dal significato delle azioni meccaniche che i suoi abitanti inanellano, ci consente di meglio inseguire l’idea che l’enigma della vita possa avere delle soluzioni.

 

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