Utopia e Pseudologia fantastica, pregiudizi e Pseudodoxia epidemica

Il dottor Olaf  Rudbeck (1630-1702) sosteneva che il continente perduto di Atlantide fosse stato la culla della civiltà per l’umanità intera e quindi tutti i riferimenti classici di sapore edenico, come quello agli Iperborei, al Giardino delle Esperidi, ai Campi Elisi, o allo stesso Paradiso terrestre, ne rievocassero confusamente la leggenda originaria. Da buon patriota, nel suo “Atland eller Manheim”, pubblicato ad Uppsala nel 1675, individuava quest’isola utopica, piuttosto che nell’Atlantico, nel Baltico, nella Scandinavia, e precisamente in Svezia. L’ideologia nazi-fascista avrebbe imitato tale atteggiamento culturale ricercando in remote migrazioni l’origine dell’odierno assetto mondiale, del primato della razza ariana, dei miti nordici, o delle dieci perdute tribù di Israele.

Il mito di Atlantide

Il mito di Atlantide assurse ad esempio di eccesso di civilizzazione, tanto da rendersi colpevole di arroganza e sfida (hybris) nei confronti degli dei, che giustamente ne puniscono gli abitanti anche per contrastarne lo spropositato progresso. Nella Bibbia accade qualcosa di molto simile con la torre di Babele, Sodoma e Gomorra e lo stesso diluvio universale.

Il mondo delle idee

Per quanto riguarda il grado di conoscenze scientifiche, l’antichità è stata forse fin troppo sottovalutata, se pensiamo che Platone dimostra di sapere dell’esistenza degli spermatozoi, descritti come “viventi invisibili per la loro piccolezza”(aòrata hypò smikròteto, Timeo, 91d), così come, nel descrivere la sua concezione dell’universo, tra il  metafisico ed il matematico, inserisce quella che potrebbe sembrare un’ipotesi di spazio tempo: “Il tempo è nato con il cielo (chrònos d’oun met’ouranou gègonen), cosicché, nati insieme, si dissolveranno insieme, se mai debbano dissolversi” (sempre nel Timeo, 38b). Nella Repubblica (X, 614-21), fa riferimento all’esperienza paranormale del soldato panfilio (da noi oggi definita: NDE), anche se a Socrate fa dire, come spiegazione della vicenda extraterrena, che Er, figlio di Armenios, giunto in riva al fiume dell’oblio, il Lete, non ne aveva appositamente bevuto l’acqua, proprio per poter tornare tra i viventi. Nel Fedone, il filosofo disquisisce del destino delle anime nell’oltretomba, non più da scienziato ma da religioso. Nel Simposio, prima di essere divisi in maschi e femmine, tutta l’umanità era, per lui, composta da androgeni. Probabilmente quindi, Platone, nel Timeo, accanto ad intuizioni e tentativi di spiegazioni, espone anche, tra le speculazioni metafisiche, delle sue fantasiose invenzioni, appartenenti al mondo delle idee, attribuendo ad uno dei partecipanti al dialogo, Crizia, il resoconto di una narrazione ereditata dal bisnonno Dropide, il quale, a sua volta, l’avrebbe raccolta dal celebre Solone, che  dichiarava di averla udita da un sacerdote egizio.

Timeo

Novemila anni (o forse mesi) prima di allora, in pieno oceano, ma prospiciente alle colonne d’Ercole, sarebbe esistito un’intero arcipelago dalle dimensioni pari all’insieme del nord-africa (la cosiddetta Libia di quei tempi) e dell’Asia minore. I suoi molto progrediti, seppur bellicosi, abitanti avrebbero costituito un grande impero, sottomettendo le popolazioni della costa africana sino ai confini d’Egitto, e persino dell’Europa occidentale mediterranea fino al Tirreno. Soltanto gli ateniesi sarebbero riusciti a resistere a tale aggressione, grazie anche all’alleanza fortuita di terremoti ed inondazioni che fecero scomparire la patria del nemico.

Crizia

Nell’incompiuto  successivo dialogo, intitolato allo stesso Crizia, si descrivono in termini superlativi quelle che hanno tutta l’aria di essere delle utopiche meraviglie di un’isola incantata, almeno fin quando l’invidia degli dei non intervenne a distruggerla. Tali testi filosofici sembrano scritti appositamente per indurre il lettore ad abbandonarsi ad una consapevole illusione, richiamando abbastanza esplicitamente quella che Coleridge avrebbe magistralmente definito “a willing suspension of disbelief”.

Ed infatti, già Strabone riferiva che, mentre Posidonio prendeva molto sul serio il racconto platonico, Eratostene e lo stesso discepolo Aristotele si dimostravano piuttosto scettici quanto a veridicità dell’argomento.

Proclo, nel V secolo della nostra era, aggiungeva, all’elenco delle possibilità, l’interpretazione allegorica, indipendentemente dalla storicità o meno degli avvenimenti narrati, e ciò in relazione soprattutto a quell’opposizione tra verità assoluta, mondo ideale o realtà eterna, e vicende terrene, sottoposte alle leggi del divenire, che caratterizzavano il pensiero dell’autore.

Se Plinio il vecchio, Diodoro Siculo ed Eliano sembrano astenersi dal parteggiare per alcuna di queste fazioni, Filone alessandrino, Tertulliano ed Arnobio propendono per l’autenticità della storia. Clemente alessandrino e Cosma Indicoplaste la respingono in toto. Marsilio Ficino le attribuiva saggiamente un valore squisitamente ideale. “Scettici” furono Montaigne e Fréret, “credenti” Francis Bacon, Fabre d’Olivet, e Schopenhauer, il quale, in “Parerga und Paralipomena” sottolineava la presenza della desinenza “atlan” nei vari toponimi del Messico precolombiano.

Teseo ed il Minotauro

I maggiori contributi al mito atlantideo proverrebbero abbastanza presumibilmente da una triade di tradizioni provenienti, la prima, dall’archetipo sempre esistito della terra utopica in seno al Mediterraneo, la Scheria dei Feaci ad esempio, una seconda, dalla memoria egiziana di grandi invasioni provenienti da occidente, ed una terza infine basata su reali conflitti, tra Atene e la Creta di Minosse, che la vicenda di Teseo ed il Minotauro riecheggerebbero. La leggenda sarebbe nata allora forse ben prima dell’VIII secolo a. C.

Alla talassocrazia cretese si è ispirato Wilhelm Brandenstein per riconoscere nella civiltà minoica la cultura atlantidea, mentre Spyrìdon Marinàtos ne giustificò la repentina scomparsa attribuendola all’esplosione vulcanica di Thera (Santorini).

Tsunami

Molti punti di contatto proverrebbero dal disastro di Elice, di cui riferì Strabone. Tucidide (Guerra del Peloponneso III, 89, 3) descrive una specie di “tsunami” per un’isola di nome Atalante. Ed altrettante assonanze evoca l’inondazione che scacciò il re Atlante dall’Arcadia.

Quella di Lemuria sarebbe un’ipotesi postulata per fornire una spiegazione plausibile all’estrema  localizzazione delle proscimmie malgasce, chiamate con il nome latino degli spettri.

Charles Etienne Brasseur de Bourbourg si dedicò a Mu, ricavandolo da un antico testo maya.

Per alcuni, il calcolo di 9000 mesi, anziché anni, collocherebbe il disastro intorno al 1253 a. C., un periodo prolifico in quanto a tremendi accadimenti.

Un esponente del “diffusionismo”, Ignatius Donnelly, associava il mito di Atlantide al diluvio; Berlitz al triangolo delle Bermuda, Velikovski alla teoria dei mondi in collisione, seguendo un’idea originaria di William Whiston.

Gian Rinaldo Carli, nelle “Lettere Americane” (1780), spiegava la somiglianza di certi aspetti delle civiltà al di qua ed al di là dell’oceano, proprio per la presenza di un primitivo continente che avrebbe dato origine ad entrambe.

Leo Frobenius identificava invece la cultura atlantidea con la primordiale civiltà africana. La sede più votata sarebbe il Magreb, dove si stende appunto la catena dell’Atlante. Berlioux citava una misteriosa Cerne, in Marocco, distrutta proprio nel XIII secolo a. C. da una coalizione di Egizi e Fenici. Sage ha indicato invece il deserto del Sahara, per come romanzato da Benoit. Mentre la fantasia di Verne aveva scelto l’isola di Madera. Bérard avrebbe evidenziato la suggestione fornita dall’avveniristico kothon, porto mimetizzato e modernissimo di Cartagine.

C’è chi ha guardato ad occidente fino alle Antille, all’America del Nord, al Brasile (Fawcett), chi alla biblica Tarshish (Tartesso), chi a nord, Helgoland (Spanuth) o alle Spitzbergen (Bailly), e chi addirittura dalla parte opposta, a Troia (Zaugger). Si è giunti pure ad intrecciare una probabile identificazione del continente perduto di Atlantide con l’altrettanto ipotetica  quete della favolosa Ophir salomonica.

Spostando le Colonne d’Ercole dallo stretto di Gibilterra allo stretto di Messina, è la Sardegna a svelare parte del mistero, sia della scomparsa della civiltà atlantidea che dell’altrettanto misteriosa nascita di quella etrusca.

Le Colonne d’Ercole

Prima che ad Eracle, lo stretto di Gibilterra sarebbe stato intitolato a Briareo, il mostro marino che partecipò, a fianco di Zeus, alla Titanomachia (Eliano, Varia Historia V 3). Il gigante ecatonchiri (centimani), come i fratelli Cotto e Gia, essendo stato confinato nel Tartaro da Crono, avrebbe parteggiato per Zeus (Esiodo Teogonia 7,13). L’altro nome di Briareo, Egeone, era pure un appellativo di Poseidone, e lo accosterebbe ad un corrispettivo nordico, Aegir, Ymer, Hler, dio germanico del mare.

Plutarco, sia in “De facie quae in orbe lunae apparet” sia in “De defectu oraculorum”, riconduce le colonne di Briareo a delle colonne d’Ercole nelle prossimità di Ogigia, l’isola di Calipso, da Omero descritta infatti come “la figlia del terribile Atlante, il quale del mare/ tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne (kìonas makràs)/ che cielo e terra sostengono” (Odissea I,51-54). Il gruppo settentrionale delle isole Faroer , disposte in fila trasversalmente, presentando una tipica forma alta, stretta ed allungata, una accanto all’altra, sembrano costituire una specie di gigantesco colonnato, le cosiddette grandi colonne di Atlante, la cui figlia avrebbe abitato una delle isole contigue, ma più meridionale, Stòra Dìmun. Nel 12 a. C. il fratello di Tiberio si era avventurato ad esplorare il Mare del Nord:”… si sparse la fama che ancora restassero le Colonne d’Ercole… Né mancò audacia a Druso Germanico, ma l’oceano s’oppose all’esplorazione sia delle sue acque, sia delle vestigia di Ercole” (Tacito Germania, 34, 2).

Nei Miti Greci (II, 5, 10, 107) Apollodoro narra dell’episodio eracleo: “giunse in Libia e poi a Tartasso, dove collocò, a memoria del suo passaggio, due colonne, una di fronte all’altra, ai confini dell’Europa e della Libia”. La leggenda delle colonne di Eracle allo stretto di Gibilterra, allora, sembra più che altro avere il senso di un monumento commemorativo, non quello di un limite invalicabile, come indurrebbero a pensare il motto “Non Plus Ultra” e la successiva divisa di Carlo V: “Plus Ultra”, tant’è che fin dal VII secolo a. C. Coleo di Samo fu spinto nella regione di Cadice (Gadir), fondata dai fenici, del re di Tartesso Argantonio.

Sul frontespizio del suo Novum Organum, Francesco Bacone fece raffigurare le colonne d’Ercole, quale visibile rappresentazione del presunto limite dello scibile umano, ed in mezzo ad esse vi pose il motto profferito dal profeta Daniele: “Multi pertransibunt et augebitur scientia” (molti andranno oltre e la conoscenza progredirà), che ben sintetizza il pensiero di un illuminato filosofo della scienza: ”La realtà non deve essere costretta entro i limiti dell’umana comprensione, come si è fatto finora, ma è piuttosto la comprensione che deve estendersi ed ampliarsi per includere il quadro della realtà così come viene scoperta”.

Abila e Calpe rappresentavano piuttosto lo sbocco del mediterraneo, oppure una sorta di confine tra nord e sud, Europa ed Africa. Imilcone ed Annone da Cartagine esplorarono le coste atlantiche del continente nero e della penisola iberica, alimentando la tradizione della scoperta di un’isola meravigliosa da parte dei cartaginesi in pieno oceano, identificabile con Madera, oppure con una delle Azzorre o delle Canarie. Nel secolo successivo, navigò in pieno oceano Eutìmene di Massalia. E, sempre da Marsiglia, Pìtea sarebbe giunto in Bretagna, e per alcuni persino in Islanda e Scandinavia.

Erodoto  attribuisce al principe persiano Sataspe, ed a navigatori fenici, al servizio del faraone Neco, un rispettivamente fallito ed un riuscito incompleto periplo del contenete nero. Incerta la circumnavigazione di cui parla Strabone, da parte di Eudosso di Cizico il quale, sulle coste meridionali dell’Etiopia, ritrova quale residuo di un naufragio una polena fenicia.

Le coste settentrionali dell’oceano indiano furono esplorate da Scìlace di Carianda, su incarico di Dario di Persia, e dal cretese Niarco per conto di Alessandro il macedone. Mentre ad Ippalo si attribuisce il merito di aver scoperto la regolarità dei monsoni.

Fenici, vichinghi e cinesi sarebbero giunti in America già prima di Colombo, ma l’iscrizione fenicia di Parahyba, in Brasile, non sarebbe autentica, come non lo sarebbero la mappa di Vinland o la pietra runica di Kensington.

L’ecumene

L’idea di un continente intermedio non sarebbe stata del tutto chiara agli antichi, almeno quanto quella di un universo rotondo.Della sfericità della terra parla Platone nel Fedone, ed insieme del destino delle anime nell’oltretomba. Per bocca di Socrate espone una visione mistica che lo avrebbe ispirato. E, nel Simposio, prima di essere divisi in maschi e femmine, anche gli esseri umani avevano forma sferica. Rotondi erano l’essere di Parmenide ed il dio di Senofane. Teofrasto attribuisce quest’idea proprio a Parmenide, sulla base dell’eccellenza qualitativa del solido sferico più che su una vera e propria convinzione scientifica. Alla quale sarebbe stato maggiormente consono il pensiero di Archita di Taranto.

In virtù dell’equivalenza degli impulsi (isorrhopìa), in sostanza la gravità, il pianeta rotondo (peripherés) si sostiene nell’immobilità in mezzo alla volta stellata, anch’essa sferica. La superficie terrestre è cosparsa di avvallamenti, dei quali la nostra “ecumene” è solo una tra molte e andrebbe appunto dalla Colchide alle Colonne d’Ercole.

Il volto della Luna

Parlando dei Suioni, Tacito si sofferma su quel grande ed incerto limite settentrionale, idealizzato, forse a causa della sfiducia nell’umanità conosciuta. “Al di là di essi c’è un altro mare, stagnante e quasi immobile, che cinge e chiude la terra: lo si crede perché l’estremo rifulgere della luce del sole al tramonto dura fino all’alba, in un chiarore tale da offuscare le stelle; la credenza popolare aggiunge che, al sorgere del sole, si ode un suono e si vedono le forme dei suoi cavalli ed i raggi attorno al suo capo. Soltanto fin là, e questo è vero, si estende il mondo”. Se a sud del mar glaciale artico vivono popolazioni che sembrano rappresentare un paradigma di semplicità e virtù, a nord raggiungeranno la perfezione e l’armonia utopiche. Ecateo di Abdera identificava la terra degli iperborei con l’isola di Tule. Plutarco invece, ne “Il volto della Luna”, colloca nel mare di Crono, l’Ogigia di Calipso e un vasto continente dell’ultimo orizzonte cosmico.

Crono

Il figlio di Urano e di Vesta, conosciuto Crono dai greci e Saturno dai latini, pretese dal fratello maggiore Titano di occupare il trono paterno. Un’altra storia di “legumi”, questa tramandata da Esiodo nella sua Teogonia, come quella biblica (Genesi 25, 29-34), più celebre tra i gemelli Esaù e Giacobbe. Ma, in questo specifico caso, “il piatto di lenticchie” era rappresentato dalla discendenza maschile, ed a divorarla sarebbe dovuto essere lo stesso genitore. Crono quindi costrinse a consegnargli tutti i neonati la consorte Rea, la quale però riuscì a nascondergli l’erede designato Zeus. Questi, da adulto, lo ripagò con la stessa moneta con cui era stato licenziato il nonno celeste.

Gli stoici interpretarono il mito secondo la physica ratio, assimilando Crono a Chronos, il tempo, che genera gli anni per ingoiarli. Cicerone nel De Natura Deorum (II, 64) racconta che Zeus scacciandolo dal cielo per l’avidità dimostrata, lo incatena ad un’isola remota condannandolo al letargo affinché il trascorrere del tempo sia vincolato al corso degli astri in maniera ordinata, senza sconvolgimenti cosmici.

Redeunt Saturnia regna

L’altra versione vuole Saturno nel Lazio ad instaurare il regno dell’età dell’oro, dove vige uguaglianza, concordia, armonia e benessere. Il Saturno laziale ed il Crono dell’isola settentrionale, nell’assicurare il giusto fluire del tempo, preparano l’avvento della perfezione dell’utopia.

“Essi chiamano se stessi continentali mentre danno agli abitanti di queste nostre terre, circondate completamente dal mare, il nome di isolani. Sono convinti che con il popolo di Crono si mescolarono in prosieguo i compagni di Eracle: rimasti indietro, questi riaccesero per così dire a forte e vigorosa fiamma la scintilla greca, che si andava ormai spegnendo sopraffatta dalla lingua, dai costumi e dal modo di vita dei barbari; ecco la ragione per cui Eracle vi gode degli onori supremi, seguito appena da Crono” (Plutarco, Il Volto della Luna, 26, 941).

Virgilio profetizza il ritorno dell’età di Saturno nella IV ecloga: “redeunt Saturnia regna”.

Ragnarok

Quando nell’Iliade (XV, 190-192) si attribuisce ai figli di Crono il nuovo assetto del mondo, si dice che a Poseidone “toccò di vivere nel mare canuto”, “Ade ebbe l’ombra nebbiosa/ e Zeus si prese il cielo tra le nuvole e l’etere”, sembra che si alluda ad un cambiamento climatico. Ade occupa il deserto di ghiaccio e gelo, a Poseidone si devono le burrasche, ed anche Zeus si presenta, nell’Iliade, innanzitutto come una divinità tempestosa, nuvola nera (kelainephés, , Iliade I, 397), radunatore di nuvole (nephelegerétes I, 511), lanciatore di folgori (terpikéraunos, II, 478), vasto tuono (erigdoupos, V, 672), scagliatore di fulmini (asteropétes, VII, 443), che “agli uomini mostra quali sono le sue armi (piphauskòmenos ta ha kèla, XII, 280), come “la folgore del grande Zeus/ ed il tuono terribile, quando dal cielo rimbomba” (XXI, 198-199). Il celebre mitografo Walter Otto, per questi appellativi, ne sottolineò la similitudine con il dio hurrita della tempesta, Tesub. E Zeus assume l’egemonia con l’aiuto di Briareo/Egeone, signore del mare in tempesta. Se, per Filostrato, Egeone (Aigaìon) è un altro nome di Poseidone, Aegyr è il corrispettivo mitologico nordico. Briareo supera il padre per la forza (bien), o meglio la violenza, e al mare tranquillo e navigabile dell’età dell’oro, dopo l’evento astronomico legato alla precessione degli equinozi ed alla fine del periodo orionico, succede un disastro climatico, di cui è paradigmatico il cosiddetto crepuscolo degli dei, Ragnarok. Secondo l’Avesta, il paradiso primordiale Airyana Vaejo sarebbe stato colpito da una serie di dieci rigidissimi inverni e solo due estati. Ahura Mazda indusse Yima a proteggere gli animali e le piante all’interno di un particolare recinto Vara. Nell’Avesta, Varena (Varuna, in sanscrito), di forma squadrata, è poi una delle 16 regioni del creato.

Nel Mahabharata si parla del “frullamento dell’oceano” da parte del monte Mandara, impiegato come frullino, e del serpente Vasuki, come corda. Il paragone occidentale sarebbe rappresentato dal Maelstrom, e dal fiabesco gorgo di Cariddi, a cui bisognerebbe riconoscere così una collocazione settentrionale. A corrispondere all’ omerico Oceano ci sarebbe da proporre il fiume Sarasvati, che scorre dentro il mare, come appunto la corrente del golfo la quale, nel lambire le coste della Scandinavia, arriva ad addolcire il clima delle Lofoten e delle Vesteralen.

Urheimat

La letteratura sanscrita chiama i nemici degli Arii, Danava, abbastanza assimilabili agli omerici Danai. E , per i greci, Dioniso, essendo figlio di Semele, avrebbe avuto a che vedere con l’India, per via del monte Sumeru. Mentre Ares sarebbe stato tipicamente il dio degli Arii, come Trakajit sarrebbe stato appellativo di Kartikeya, omologo indù di Ares, definito anche Skanda, come l’omerica Scandia  e la stessa Scandinavia.

Nel Mahabharata, la terra posta agli estremi confini del mondo, è Uttarakuru, terra estrema, in sanscrito Paradesha, in iranico Pairidaeza, in ebraico Pardes, in greco Paràdeisos, nell’Avesta Airyana Vaejo. Qui, ben prima che sopraggiungessero i climi glaciali, le fonti indo-iraniche localizzano un culto solare, diremmo a questo punto, dedicato a quell’Apollo proveniente dalle regioni degli iperborei.

Il Tilak, nelle sue opere (“La dimora artica nei Veda” e “Orione: a proposito dell’antichità dei Veda”), ipotizza per la Urheimat, luogo di origine primordiale degli indoeuropei, una sede nelle estremità settentrionali del pianeta, tra le isole Vesteralen e Mageroya, le penisole di Kola, Porsanger, Nordkinn, Varanger ed il Tanafjorden, dove, allorché la costellazione di Orione segnava l’equinozio  di primavera, ed il dragone indicava il polo nord, e quindi nel periodo climaticamente più favorevole per quest’area, all’incirca a partire da cinque o seimila anni fa, si sarebbe sviluppata la primordiale civiltà indoeuropea.

Il nome arcaico della dea Neith, Narte, è prossimo a quello della dea dei Germani Nerthus, nordico Njordhr, o a quello degli antenati mitici degli Osseti, i Narti. Il fondatore della prima dinastia egizia Menes ricorda il Mannus capostipite dei Germani. Il libro dei morti degli antichi egizi menziona una originaria terra degli dei, dalla quale proverrebbero pertanto tutte le divinità degli uomini. Khonsu sarebbe ricordato dal latino Consus, Mnevis da Minerva, azzardando un parallelo anche tra Kem e la tibetana Kham. La vicenda finnica di Lemninkainen, come Osiride fatto a pezzi e gettato nelle acque dell’aldilà, Manala, si ritrova nel Manalis Lapis, la pietra posta a chiusura della porta degli Inferi, per impedire ai Mani di fuoriuscire dall’Ade, ed il cui potere è quello di provocare la pioggia. I Cureti omerici si sono riproposti nei Quirites romani, in opposizione alle melittai, api, divenute milites, che avrebbero difeso Zeus bambino, alla stessa stregua del neonato re etiope Lalibela. Il fabbro Ilmarinen , per temprare il metallo ricorre al miele di Mehilainen. Nella letteratura vedica il vocabolo graha, vaso sacrificale, raccoglie il soma, la bevanda dell’immortalità; per i greci era sul kernos che si depositavano le offerte. E dal corno di Amaltea era stata formata la magica cornucopia. C’è allora attinenza tra corna, graha e graal. La bevanda soma, Haoma per gli iraniani, per i finnici diventa juoma, citata nel XX runo del Kalevala a proposito dell’origine della birra definita miesten juoma, cioè bevanda degli uomini. Nella ricetta riportata nel Riveda (I, 5, 5) il soma di colore fulvo e bruno (Riveda VIII, 29, 1; IX, 3, 9) veniva mescolato con latte cagliato e miele, come si faceva per il cosiddetto vino di Pramno, citato da Omero. Il surrogato romano del vino derivava invece dal miglio, ed era camum, in greco kamon, anch’esso assimilabile a soma haoma juoma. Nella mitologia nordica la birra ha il potere di far trascendere agli uomini i propri limiti.

Non procedere oltre

L’isola di Crono, la terra degli iperborei, l’ultima Thule, che fossero le coste scandinave, l’Islanda o la maggiore delle Shetlands, erano gli orizzonti che delimitavano l’umanità, ma verso cui si proiettavano aspettative utopiche. Ma anche se avesse realmente avvistato l’ultima Thule la flotta di Agricola ricevette il divieto di avventurarsi a nord della Scozia, oltre le Orcadi. Testimonia Tacito:”la flotta romana, che allora per la prima volta circumnavigò queste coste nell’estremo mare, ha confermato che la Britannia è un’isola e contemporaneamente ha scoperto e sottomesso isole fino ad allora sconosciute, chiamate Orcadi. Fu avvistata anche Tule, ma gli ordini erano di non procedere oltre, poiché si avvicinava l’inverno” (Agricola, X, traduzione di M. Stefanoni).

Ulisse che si avventura all’estremo occidente, con l’esortazione dantesca al suo equipaggio (”Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e conoscenza.”), nell’avvistare la montagna del paradiso terrestre, da cui l’umanità viene inesorabilmente respinta, soddisfa tragicamente la sua sete di sapere: “Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,/ ché de la nova terra un turbo nacque/ e percosse del legno il primo canto./ Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/ a la quarta levar la poppa in suso/ e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/ infin che’l mar fu sopra noi richiuso”.

Meropide

Da Eliano (Varia Historia III, 18) sappiamo che lo stoico Teopompo, giudicato “deinòs mythològos” parlò di un continente perduto chiamato Meropide nel dialogo tra un Sileno semidivino ed un altrettanto fiabesco re Mida. E, come Platone per Atlantide, su Meropide concentrò tutti quei motivi caratterizzanti le cosiddette utopie di ogni tempo e paese, dalla prodigiosa longevità degli abitanti, pacifici, pii e privi di avidità, ai frutti che procurano eterna giovinezza e gioia, e così di seguito.

Utopia

Oltre all’Atlantide platonica, non va giusto dimenticata l’Utopia di Thomas More e “La Città del Sole” di Campanella. Bacone, ne “La Nuova Atlantide” attribuisce a Bensalem alcune caratteristiche proprie dell’utopia: si tratta di un’isola, remota, ai confini del mondo conosciuto, dove regnano prosperità e armonia, pace, concordia, morigeratezza e culto del sapere. Qui la conoscenza non si adagia su di una mera contemplazione, ma diventa esplorazione, scoperta, avventura, caccia, “venatiotout court.

Utopia sostanzialmente significa luogo inesistente, “non luogo”, a volte con la valenza di “altrove”. Se poi si segue l’indicazione di Mose I. Finley, in “The use and abuse of history” (The Viking Press, New York, 1975, pag. 178), interpretando la lettera iniziale come un prefisso eu (bene), si ottiene il valore di “ideale”. Difatti, ”Wherefore not Utopie, but rather rightely/ My name is Eutopie: a place of felicitie” si legge nei due versi del “Meter of IV Verses in the Utopian Tongue”, in appendice all’opera di Thomas More.

Gli  Iperborei

L’era di Saturno, definita come età dell’oro, ci ricorda che, in altre circostanze, piuttosto che di un luogo si è vagheggiato di un tempo “ideale”, altrettanto remoto da noi quanto le isole dell’Atlantico lo erano per Platone. Martino Menghi, nel suo ”L’Utopia degli Iperborei” (Iperborea, Milano, 1998), conia ad hoc il termine “U-cronìe” e suggerisce che, alla nostalgia per quanto è andato perduto di un edenico passato, simmetricamente viene prospettata un’escatologia di là da venire, in coincidenza con il giudizio universale, caratterizzata dall’aspettativa messianica nell’infinita eternità: “…allora risorgerà il genere umano, – scrive Tertulliano nell’”Apologetico” – perché si possa stabilire che cosa in questa vita ciascuno abbia meritato di bene o di male; e da quell’istante sarà giudicato per tutta l’immensa perpetuità del tempo. Allora non più morte, non più di nuovo resurrezione, ma saremo quelli che siamo ora, e non più degli altri…”.

Ultima Thule

L’escatologia cristiana era stata preceduta da una pagana, altrettanto mitica, di ordine geografico, raccolta da Seneca nella sua Medea: “Verrà nel futuro un’epoca/ in cui l’Oceano scioglierà i suoi sigilli,/ apparirà un immenso continente,/ Teti svelerà nuovi mondi/ e Tule non sarà più l’ultima terra” (Venient annis specula seris/ quibus Oceanus vincula rerum/ laxet et ingens pateat tellus/ Tethysque novos detegat orbes/ nec sit terris ultima Thule).

Ecateo di Mileto, nel VI secolo a. C., posiziona gli Iperborei aldilà dei monti Rifei, nell’estremo settentrione della sua carta geografica. Mentre, nel IV libro delle Storie, Erodoto così ce li racconta (nella traduzione di Izzo d’Accinni): “Aristea di Proconneso, figlio di Castrobio, componendo un poema epico disse di essere giunto, invasato da Febo, presso gli Issedoni e che, al di là degli Issedoni, abitano gli Arimaspi, uomini monocoli, e, al di là di questi, i grifi custodi dell’oro, ed, oltre a questi, gli Iperborei, che si estendono fino ad un mare. Tutti questi, tranne gli Iperborei, a cominciare dagli Arimaspi assalgono continuamente i loro vicini, e così dagli Arimaspi furono scacciati dal loro paese gli Issedoni, dagli Issedoni gli Sciti, e i Cimmeri, che abitano sul mare australe, premuti dagli Sciti, abbandonarono il paese”.

Nella sua Geografia, Strabone asserisce che “tutti i popoli verso nord ebbero il nome da parte degli storici greci di Sciti o Celtosciti, ma gli scrittori dei tempi ancora più antichi, ponendo distinzioni tra essi, chiamavano quelli che vivevano intorno al Ponto Eusino, all’Istro e all’Adriatico Iperborei”. Con Istro intendeva il Danubio, mentre Tolomeo poneva gli Iperborei in relazione con l’istmo del Tanai, che sarebbe il Don, la cui sorgente si trova proprio sui Monti Rifei.

Nel corso del tempo, gli Iperborei sono divenuti sinonimo di settentrionali, come letteralmente indica il loro nome: al di là di Borea.

Ecateo di Abdera, geografo della corte di Tolomeo Soter, li situa in un’isola “non minore della Sicilia per estensione”, per cui qualcuno ha pensato alla Gran Bretagna o alla Scandinavia. Pitea di Marsiglia li collocava nella Tule, identificabile presumibilmente con la maggiore delle isole Shetland.

Virgilio li ricorda nei versi delle Georgiche (3, 381-3): “Sotto le stelle dell’Orsa Maggiore (Hyperboreo septem subiecta Trioni), sferzato dal vento Rifeo, vive un popolo selvaggio (gens effrena), avvolto in fulve pellicce di animali”.

La descrizione nella Naturalis Historia (IV, 88-91) di Plinio il Vecchio appare più completa, per quanto relativamente più recente: “Poi ci sono i monti Rifei e la regione chiamata Pterophoros per la frequente caduta di neve, a somiglianza di piume; una parte del mondo condannata dalla natura ed immersa in una densa oscurità, occupata solo dall’azione del gelo e dai freddi ricettacoli dell’aquilone; un popolo fortunato (se crediamo), che chiamarono Iperborei, vive fino a vecchiaia famoso per leggendari portenti. Si crede che in quel luogo siano i cardini del mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro e un solo giorno senza sole, non, come dissero gli inesperti, dall’equinozio di primavera fino all’autunno: per essi il sole sorge una volta all’anno, nel solstizio d’estate, e tramonta una volta, nel solstizio d’inverno. E’ una regione luminosa con clima mite, priva di ogni nocivo flagello. Hanno per case selve e boschi, venerano gli dei profondamente e collettivamente, la discordia e ogni malattia sono loro sconosciute. Non vi è morte, se non per sazietà di vita, dopo i banchetti e nella vecchiaia colma di conforto; si gettano in mare da una rupe: questo tipo di sepoltura è il più felice… Non si può dubitare di quel popolo: tanti autori tramandano che essi sono soliti inviare a Delo, ad Apollo, da loro venerato sopra tutti, le primizie delle messi. Alcune fanciulle venerate per alcuni anni dall’ospitalità dei popoli le portavano, finché, essendo stato violato il patto, decisero di deporre le offerte sacre alle frontiere degli abitanti più vicini, e che questi le passassero ai loro vicini, e così fino a Delo”.

L’autodeterminazione nel procurarsi la morte riecheggia il mito del suicidio collettivo che sarebbe stato operato dai lemming durante le imponenti migrazioni autunnali. Ma, per Plinio, si tratta tutto sommato, di gente fortunata e felice, sia per il fatto di vivere a lungo piamente ed in concordia, sia per la possibilità di decidere di morire “per sazietà di vita”. Pure gli altri aspetti della descrizione pliniana li collocano in una dimensione utopica, poiché la terra è aprica, il clima mite, come per i Feaci. Siamo in un giardino edenico che nulla ha da invidiare al paradiso (paradeisos è proprio il giardino) terrestre.

Apollo Lykeios

Alla vicenda degli iperborei, inoltre, Plinio lega strettamente quella del dio Apollo. Il figlio di Latona e di Zeus è sicuramente il dio più bello, luminoso e solare, protettore delle arti in genere, dalla poesia alla musica, dalla medicina alla profezia, e pertanto anche della sapienza e della giustizia. Le sue competenze implicano tutto quanto appartiene alla ragione, e quindi la scienza come le leggi. E’ da questo punto di vista che si contrappone, almeno apparentemente, al dio della trasgressione, Dioniso, come ci tramanda Euripide nelle Baccanti.

Eppure Apollo è il dio che, nella trilogia di Eschilo, pone fine alle vicissitudini di Oreste, colpevole di matricidio, inducendo le Erinni (Aletto, Tisifone e Megera) a mostrarsi sotto le sembianze di Eumenidi. Fecondando la Pizia, le ispirava saggezza, e con essa giustizia. Da quest’ultima, comunque, conseguono esemplari castighi.

Per spostarsi, Apollo si avvale di un carro trainato da cigni, dono di Zeus insieme con la mitra aurea e la lira. “Egli allora, salito sul cocchio, – recita Alceo – incitò i cigni a volare verso gli Iperborei”. Ed è in queste circostanze che si presenta agli Argonauti, secondo Apollonio Rodio. “Dopo aver dato un responso oracolare presso gli uomini di laggiù per un anno intero, – continua Alceo – quando ritenne che fosse il momento opportuno perché risuonassero i tripodi di Delfi, ordinò allora ai cigni di volar via”.

“Dicono che il più antico tempio di Apollo fu fatto di alloro, e che i suoi rami furono portati dall’alloro di Tempe; – riporta Pausania nelle sue Periegesi – il tempio potrebbe aver avuto l’aspetto di una capanna. Gli abitanti di Delfi affermano che il secondo fu costruito dalle api (melittai, milites) con cera ed ali; e raccontano che quello fu inviato agli iperborei da Apollo”.

Delet (Teili) o Delo

Alcune suggestioni linguistiche, osservate da Felice Vinci, nel suo ”Omero nel Baltico” (Palombi, Roma, 2003), accosterebbero le piccole isole che fanno da cintura alla costa finlandese alle vicende del dio. Lo ricorda direttamente una suggestiva Aplo (Apollo) ed una Delet (Delo), entrambe prossime alle Aland.

Latona

Apollo nasce a Delo descritto come uno scoglio vagante che infine si ferma per le preghiere di Latona. La madre del dio, perseguitata dall’ira della gelosa Era, in un viaggio durato dodici giorni e dodici notti, proveniva dalla terra degli iperborei insieme a delle lupe, tramutata in lupa ella stessa. Perciò Apollo è detto Lykeios o Lykios, anche se, per alcuni, questo epiteto lo vorrebbe proveniente dalla Licia. Una terza interpretazione sottolinea la radice arcaica leuk, da cui leukos, chiaro (italiano luce, tedesco licht).

Ci spiega qualcosa in merito la Geografia (418) di Strabone, nel riportare la leggenda secondo cui gli abitanti di Delfi, uno tra i più famosi ed importanti centri di culto del dio, proverrebbero da Lykoreia, alle pendici del Parnaso, dove sarebbero giunti seguendo l’ululato dei lupi, letteralmente dei lupi ululanti (lykoi oryontes).

Il simbolismo duodecimale infine avvalora l’identificazione di Latona con una lupa, per la credenza relativa alla durata della gestazione di quest’ultima.  Nella Storia degli Animali, Aristotele la racconta in questo modo: “Dicono che tutti i lupi nascono in un arco di dodici giorni nell’anno, e riferiscono la causa di ciò sotto forma di mito: in altrettanti giorni si dice che i lupi abbiano accompagnato la dea Leto dagli iperborei fino a Delo, poiché Leto stessa appariva in forma di lupa, per timore di Era”.

Al momento del parto soccorrono la puerpera due vergini iperboree, Arge e Opis. Nella versione di Erodoto :“I Delii stessi raccontano che Arge e Opis siano giunte a Delo a portare ad Ilizia il tributo che gli Iperborei avevano stabilito per il parto e che siano venute insieme agli dei medesimi… per loro le donne colgono offerte invocandone i nomi nell’inno che Olen, poeta di Licia, compose per loro; avendoli appresi da esse gli abitanti dell’isola e gli Ioni cantano inni in onore di Opis ed Arge, chiamandole per nome e raccogliendo offerte…”.

Artemide e Ops

Pausania menziona le vergini iperboree, a cui le fanciulle di Delo si rivolgevano per propiziarsi le nozze, chiamandole Opis ed Ecaerge, laddove quest’ultimo nome significa “colei che agisce da lontano”, un epiteto specifico per l’arciera e cacciatrice per antonomasia, Artemide.

Opis ricorda maggiormente la sposa di Saturno, Ops, la grande madre terra.

Vi fu un’altra coppia di vergini inviate a Delo dagli iperborei per recare doni al tempio: Iperoche e Laodiche. Sempre Erodoto racconta : “la prima volta gli iperborei mandarono a portare le offerte due fanciulle, che i delii dicono si chiamavano Iperoche e Laodiche, e che, insieme a queste, per ragioni di sicurezza, gli Iperborei mandarono anche come scorta cinque cittadini, quelli che ora sono chiamati Perferei e godono in Delo di grandi onori. Ma, poiché gli inviati non tornavano indietro agli iperborei, essi ritenendo cosa assai grave se fosse sempre dovuto accadere che inviando dei delegati non li ricevessero più di ritorno, allora, portando ai confini le offerte sacre avvolte in paglia di grano, davano prescrizioni ai vicini raccomandando loro di mandarle innanzi dal proprio ad un altro popolo”.

Il patto violato

In cosa potesse consistere “il patto violato” a cui fa cenno Plinio, Pomponio Mela (De Choreographia III, 5-37) lo individua nella profanazione operata da un oltraggio. Nella decisione degli iperborei sembra esserci la volontà di non contaminarsi con le genti a cui imputavano un tale gesto, di mantenersi puri, di salvaguardare il loro divino isolamento. Nei loro stessi comportamenti infatti, gli Iperborei manifestano caratteristiche soprannaturali. E’ grazie al loro aiuto che nasce il dio, non conoscono le malattie, né la violenza (come gli Arimaspi), non temono la morte, vivono felici ed in concordia in un clima mite, come gli dei omerici: “non da venti è squassata, mai dalla pioggia è bagnata,/ non cade la neve, ma l’etere sempre/ si stende privo di nubi, candida scorre la luce:/ là il giorno intero godono i numi beati” (Odissea VI,43).

I doni degli Iperborei

Su quali potessero essere i doni degli Iperborei abbiamo degli indizi significativi, essendone a Delo menzionati in iscrizioni del III secolo. Il tragitto era quello dell’ambra (Berensteiroute), cominciato sin dall’età del bronzo. L’ambra veniva considerata terapeutica per le malattie della gola in genere, della tiroide in particolare, per cui era indossata come collane.

Apollonio Rodio ci propone due possibili origini dell’ambra: “I Celti hanno inventato una storia,/ che sono le lacrime del dio Apollo, figlio di Leto,/ a formare i vortici, lacrime sparse un tempo, infinite,/ quando giunse al popolo sacro degli iperborei/ e lasciò il cielo splendente per le minacce del padre,/ irato a causa del figlio che gli partorì Coronide,/ nella splendida Lacerea, presso le rive del fiume Amiro” (Argonautiche IV, 611-8).

L’altra invece viene attribuita alle lacrime delle sorelle di Fetonte: “Intorno, le giovani/ Elidi, infelici, mutate negli alti pioppi,/ effondono tristi lamenti, e dai loro occhi/ versano al suolo le gocce d’ambra splendente./ Le gocce si asciugano sopra la sabbia ai raggi del sole,/ e quando le acque della nera palude tracimano/ a riva, sotto il soffio sonoro del vento,/ rotolano tutte insieme verso l’Eridano/ e i suoi flutti agitati” (Argonautiche IV, 602-10, traduzione di Padano). Questo fiume non sembra potersi identificare con il Po, anche se sulla sua foce ebbe sviluppo il commercio dell’ambra. Nell’età del bronzo la via dell’ambra partiva dal Baltico per terminare nell’alto Adriatico. Eschilo lo identifica con il Rodano, mentre Esiodo lo pone in relazione con le terre raggiunte dai Boreadi inseguendo le Arpie.

C’è anche un legame etimologico tra il dio di Delo e l’ambra. Ambra in greco si dice elettro. E’ il nome proprio della figlia di Agamennone, Elettra, che incita il fratello Oreste a vendicare il padre, per cui, dopo aver compiuto il delitto, occorre l’intervento di Apollo a placare le Erinni e tramutarle in Eumenidi.

Via d’acqua

Gli Achei si sarebbero trasferiti in epoche remote dal Baltico nel Mediterraneo, probabilmente seguendo la stessa via che faceva giungere l’ambra in Adriatico, o scendere alla Pianura Sarmatica la stirpe vichinga dei Variaghi nel IX secolo della nostra era. La via acquatica impiegava il fiume Dnepr, che i Greci chiamavano Boristene, per giungere fino al Mar Nero. I Variaghi a Kiev fondarono il primitivo nucleo del regno di Rus, e nell’886 assediarono Costantinopoli. Fu forse proprio questa direzione a far coniare il termine di “tendenza verso Bisanzio” da parte degli storici russi. Altre popolazioni di origine baltico-scandinava sarebbero emigrate a sud per via di terra, come Cimbri e Teutoni nel I secolo a. C., ed in seguito Burgundi, Goti e Longobardi. Al tracollo del clima gli Achei avrebbero potuto risalire la Dvina occidentale per raggiungere il Dnepr e procedere per tutta l’Eurasia meridionale fino ai Dardanelli a conquistare l’Egeo ed insediarsi nel Peloponneso per far fiorire la civiltà micenea. Altri fiumi navigabili, come la Vistola ed il Dnestr, avrebbero potuto costituire percorsi alternativi, mentre il Volga sarebbe stato preferito dagli Arii, per giungere nel Mar Caspio. Ed è proprio tra questi due grandi fiumi che nascono le culture delle steppe e prosperano gli Sciti dell’antichità classica. “Essi dichiarano che dalla loro origine e dal loro primo re Targitao, fino alla spedizione di Dario contro di loro sono trascorsi mille anni” (Storie, IV, 7). Il millennio, di cui racconta Erodoto, a far data dal 514 a. C., epoca dell’attacco persiano, ci conduce allo stesso periodo della discesa dei Micenei.

Rimush

“E tuttavia la parte che gli Indoeuropei ebbero a svolgere nel mondo antico è stata spesso vista sotto una luce romantica e forse le si è dato eccessivo peso… Non è ancora possibile identificare con sicurezza la regione da cui partirono le migrazioni degli Indoeuropei, la cui importanza storica è stata di recente messa in dubbio, anzi si è proprio messo in dubbio che sia mai esistita in qualche epoca una popolazione indoeuropea distinta dalle altre ed omogenea…”. E’ questa l’opinione espressa da R. A. Crossland, a proposito de “Le migrazioni dal settentrione”, e citata da Giovanni Semerano su “La Favola dell’Indoeuropeo” (Bruno Mondadori, Milano, 2005), dove aggiunge che “un vincolo di vasta fratellanza cultrurale lega da cinquemila anni l’Europa, cioè l’Occidente, alla Mesopotamia, l’attuale Iraq, dove fiorirono le inarrivabili civiltà, le culture di Sumer, di Akkad, di Babilonia…”.

Il fondatore della dinastia di Akkad, il grande Sargon, già nel III millennio a. C. dichiara di non aver conosciuto suo padre, ma di essere figlio di una sacerdotessa che l’avrebbe posto in una cesta sigillata con pece ed affidata alle acque del fiume dalle quali lo raccolse l’innaffiatore Aqqi. Questa anamnesi romanzata viene ricopiata per Mosé, come per i gemelli latini accolti dal pastore Faustolo. E se Romolo uccide Remo, è il figlio di Sargon, Rimush (amato) a venire sopraffatto nel corso di una congiura ordita dal fratello. Romolo, Remo, Rimush, per Semerano sono ipocoristici della voce accadica “rimu”, arricchita, per l’erede di sargon dall’anaforico “sh”.

I barbari

Il mito degli Iperborei apparentemente sembrerebbe in contrasto con l’ideologia etnocentrica che si andava sviluppando in età classica, allorquando si riteneva degno di perfettibilità solo il “cittadino”, “maschio”, “libero”, inserito in un contesto sociale, quale quello della polis, dominato da un theios aner. L’anax omerico ricorda il wanax miceneo, e per assonanza l’ideogramma wang dei sovrani cinesi. A Sparta potevano esercitare i diritti politici solo gli spartiati; perieci ed iloti erano costretti a mantenere i primi con il loro lavoro. In Atene, erano tassativamente esclusi dalla democrazia le donne ed i meteci, stranieri in città. Con Roma le cose non cambiano di molto, in quanto i vinti divengono socii, foederati, ma sempre sudditi e le città, sia pur autonome acquisiscono il rango di municipi, impegnati a fornire contingenti militari.

Questi “barbari”, diversi, sono identificabili forse già nel racconto di Ulisse a re Alcinoo: “…dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti,/ venimmo, i quali fidando nei numi immortali,/ non piantano pianta di loro mano, non arano;/ ma inseminato e inarato là tutto nasce,/ grano, orzo, viti, che portano/ il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus./ Non hanno assemblee di consiglio, non leggi,/ ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime/ in grotte profonde; fa legge ciascuno/ ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura” (Odissea IX, 105-15 traduzione di Calzecchi Onesti)

“Sono nomadi, divoratori di carni crude… -dice Erodoto dei Padei – Si dice che abbiano questi costumi: se uno dei cittadini cade ammalato, sia uomo o donna, l’uomo lo uccidono gli uomini a lui più amici, dicendo che egli, consunto dalla malattia, rovina loro le carni: quello nega di essere ammalato, ma essi, non essendo della sua stessa opinione, lo uccidono e banchettano delle sue carni. Parimenti se è ammalata una donna… L’accoppiamento di tutti questi indiani che ho enumerati si svolge pubblicamente come per le bestie, ed il colore lo hanno tutti uguale e simile a quello degli etiopi. Lo sperma che essi emettono unendosi alle donne non è come negli altri uomini bianco, ma nero al pari del colore della loro pelle, ed anche gli etiopi emettono uno sperma simile” (III 99-100).

Il generale spartano Brasida si appresta a condurre una spedizione contro i barbari di Arabeo, Illiri ed Incesti. I suoi uomini sono scoraggiati perché sono stati abbandonati dagli alleati macedoni. Il discorso diretto alle truppe viene pronunciato incentrandolo sulla superiorità politica e militare dei greci rispetto ai barbari: ”E’ vostro dovere essere valorosi in fatti d’arme, non perché ogni volta sono insieme a voi degli alleati ma per la vostra personale eccellenza, né dovete temere una massa qualsiasi di altre persone, dato che voi non provenite da città rette in modo tale che i molti comandino ai pochi, ma piuttosto da quelle in cui i pochi comandano ai molti, avendo acquistato il vostro dominio solo per mezzo del combattere e del vincere”. Tucidide, nel riportare questo discorso si dimostra partigiano dell’oligarchia, ed in ammirazione di Antifonte di Ramnunte, l’organizzatore della cospirazione che, dopo la sfortunata spedizione in Sicilia, portò al governo  dei Quattrocento.

Fintanto che un popolo ispira le proprie scelte politiche alla concordia, al bene collettivo ed al metus hostilis, alla paura del nemico, si manterrà laborioso e compatto, ma al venir meno di queste condizioni e soprattutto di quella coesione in grado di convogliare l’aggressività in senso etero-diretto si sprofonderà nella corruzione, nel declino dei valori, nell’avidità, nelle lotte intestine.

Il buon selvaggio

Nel “De Bello Gallico”, Cesare parla degli usi dei Germani, considerandoli, quanto meno, diversi da quelli dei più civili Galli. “Considerano tra le cose più vergognose avere contatto con una donna prima dei vent’anni: eppure non si fa mistero di sesso, tant’è vero che uomini e donne si bagnano insieme nei fiumi e si coprono con corte pellicce, che lasciano nuda gran parte del corpo. Non si dedicano all’agricoltura, ecc.”

Il riferimento alla lunga castità dei giovani germani e la naturalezza con cui affrontano il tema del sesso sembra però suscitare nel condottiero romano una certa ammirazione, nonostante la definizione di sauvagerie con cui li contraddistingue. I comportamenti dei compatrioti, secondo quanto ci è sopraggiunto degli Adelphoi di Terenzio, della Pro Caelio di Cicerone, oppure da parte di Catullo, di Ovidio, degli elegiaci e dei satirici, differiva di parecchio. Giovenale, nella sua VI satira, espone una galleria di tipi femminili inquietanti per quanto concerne la corruzione. Nel descrivere i costumi coniugali dei Germani, anche Tacito richiama il mito latino della mulier univira. “Quasi soli tra i barbari, sono paghi di una sola moglie, salvo pochissimi, e non per sete di piacere, ma perché, a causa della loro nobiltà, sono oggetto di molte offerte di matrimonio… I rapporti sessuali non sono precoci… Non c’è fretta di far sposare le giovani; identico ai maschi è il vigore giovanile, simile la statura: si maritano quando hanno prestanza e robustezza pari al loro compagno ed i figli rinnovano la forza dei genitori” (Germania 18-20, traduzione di M. Stefanoni).

E’ come se la distinzione tra il barbaro ed il concittadino fosse sostenuta da una sorta di ambivalenza interrogativa, se giudicare in fondo più utopico l’uno o l’altro atteggiamento.

Eliopolitani

A porre il problema della disuguaglianza nel genere umano furono gli stoici, i quali non ritenevano inconsistente la distinzione tra i cittadini liberi e gli schiavi, poiché in natura è inesistente il concetto di proprietà. Si è allora tutti liberi, almeno sul piano spirituale, in quanto, commenta Seneca (Ep. 47), si può contemporaneamente essere liberi dal punto di vista giuridico e invece schiavi delle proprie passioni. Il fondatore della scuola, Zenone, aveva separato i sapienti dagli stolti, indipendentemente dal loro statuto giuridico. Uno dei suoi discepoli, Blossio di Cuma aveva partecipato alla costituzione utopica di Aristonico, il bastardo di Eumene II, in cui tutti i cittadini sarebbero stati appunto liberi ed uguali.  “Spingendosi verso l’interno Aristonico raccolse una moltitudine di poveri e di schiavi che conquistò alla sua causa con la promessa della libertà e che chiamò Eliopolitani”. Pergamo, così, nel 133 a. C., alla morte di Attalo III, sarebbe divenuta  una Città del Sole molto prima dell’immaginazione di Campanella.

L’utopia postmoderna

Al giorno d’oggi sembra che i miti siano scomparsi, travolti da un’ideologia dell’evidenza; l’incombere del continuo presente trascura ogni esperienza storica ed annebbia l’immaginazione per il futuro. L’utopia è così costretta nel comparto eretico dei desideri.

Nel suo saggio su “La Condition postmoderne” (1979), Lyotard punta il dito sulla scomparsa delle cosmogonie, dei racconti sulle origini, i miti particolaristici delle proprie radici, relativi a determinati gruppi o genti, sostituiti, sin dall’avvento del cristianesimo con visioni escatologiche, che al contrario sono universali, coinvolgendo il futuro di tutta l’umanità. La condizione postmoderna, con la “fine  delle grandi narrative”, vede il declino anche di queste aspettative. L’attuale disillusione circa il progresso, in cui l’umanità per millenni ha investito tantissimo, coincide con quello che Fukuyama ha individuato con lo spegnersi della storia.

In effetti, a questo fenomeno ha dato un forte contributo anche la perdita di terreno da parte del linguaggio temporale, con la netta predominanza del linguaggio spaziale. I termini di ogni questione vengono attualmente inseriti nel contesto di una complementarietà tra globale e locale, in sostituzione della precedente opposizione tra universale e particolare, già associata ad una concezione dialettica della storia. L’equivalenza spaziale tra l’interno del sistema globalizzante e un esterno inadeguato perché locale, rende quest’ultimo un fenomeno perturbante per l’organizzazione attuale del mondo.

Considerate la vostra semenza

A creare dei confini nello spazio, oggi, sono solo le immagini. Sono queste ad aver invaso quasi totalmente l’ambito delle cosmogonie tradizionali che innanzitutto scandivano il tempo, rendendo conto di ogni accadimento in funzione di quel simbolico riordinamento del mondo. La moderna reclusione tecnologica, che ci circonda con mezzi sempre più sofisticati ed invadenti, con la sua martellante offerta di facile comunicazione ed un’infinita disponibilità, ci esclude automaticamente dalle dimensioni storiche. Attualmente la coscienza individuale è spinta a porsi degli  interrogativi sulle modalità generiche della propria comparsa. La scienza che avanza, spostando continuamente le frontiere dell’ignoto, non aiuta il singolo, come facevano le cosmogonie, a confrontarsi con una visione totalizzante elargitrice di senso. Persino l’educazione non si indirizza verso quella che potrebbe essere un’opportunità di uguaglianza, ma verso la riproduzione di disparità. La ricerca scientifica, in fondo, non nutre, come farebbe una cultura umanistica, il linguaggio delle finalità, se non in senso materialistico e strumentalizzante. Mentre è proprio l’ideale del sapere per il sapere a tradursi in una promessa di minore solitudine e nello sviluppo di maggiore solidarietà tra i popoli, di diffusa ricchezza sociale, di condivisibile giustizia morale, e quindi forse anche nella trasformazione di quanto adesso è globale in un momento di universalità. E’ questa appunto una delle utopie della nostra epoca.

 

 

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