Tendenze e Tensioni – Quo Vada Rock?

Quo Vada Rock?

Esistono in Italia più riviste musicali che tipi di pasta. Chi ha modo di sfogliarne più di una si sarà accorto di come tutte le recensioni, al di là delle differenze di carta opaca e patinata, più o meno si assomigliano. Questo accade, oltre che per deficienze specifiche, soprattutto a causa di una eccessiva ‘specializzazione’ di chi scrive. Descrivere il prodotto musicale solamente in relazione agli altri individui della stessa specie è un gioco forzatamente limitativo e meccanico. Chiunque può divertirsi a stilare graduatorie, trovare pecche, influenze, somiglianze, quando il campo d’indagine è rigorosamente circoscritto. Ma ascoltare e descrivere una valanga di dischi non significa necessariamente ‘capire’ l’essenza del loro valore, quanto piuttosto catalogare dei reperti, allestire un album di figurine per un pubblico che è vorace consumatore proprio di quei particolari santini, cosicché il cerchio è completo e ben pochi sono gli interscambi con realtà culturali o sociali esterne. La musica rock è, nell’anno 1983, un settore ben controllato e pianificato del marketing giovanile. Le istanze più o meno ingenuamente utopiche e rivoluzionarie che avevano creato le varie ‘tensioni’ e mobilitazioni del decennio precedente si sono ora codificate e ghettizzate in fenomeni ‘hardcore’ (punk, oi, skinhead) che ben poco concedono alla possibilità di un dissenso collettivo e unitario. La colpa è tanto dei singoli musicisti (i testi di Poison Girls, Crass e compagnia sono spesso campioni di consapevolezza introspettiva) quanto dei mass media che livellano, blandiscono, occultano ogni germe di pericoloso deviazionismo. E le riviste musicali, dal canto loro, invece di seguire a braccetto il crescere di fenomeni originali diventandone parte integrante, preferiscono tenere le distanze: si limitano a documentare il già successo, il già confezionato e pianificato altrove, mettendosi al traino delle ‘mode’ che periodicamente invadono il mercato. Chi scrive su un foglio musicale dovrebbe invece avere il coraggio di scegliere, stroncare, lodare, contraddirsi, cadere mortalmente in errore, tutto piuttosto che, come succede spesso, limitarsi a lasciare scorre davanti a sé un fiume nero indifferenziato di vinile e inchiostro senza infamia e senza lode. Per vedere tutti passati con la sufficienza bastano e avanzano le insulse rubriche musicali sui vari periodici a grande tiratura: le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Ad un inconcludente sei politico è invece preferibile una certa severità, un premio ai più bravi e i somari dietro la lavagna, altrimenti il critico musicale diventa una specie di ragioniere e la rivista un postal-market ad uso e consumo delle case discografiche.

Certo il panorama contemporaneo del rock e aree limitrofe non aiuta a sbloccare la situazione: la crisi di idee e personaggi è generale, e comunemente accettata come un dato di fatto. Logico dunque che ci siano anche poche persone interessate a scrivere di rock in modo ‘militante’, troppo compromettente e rischioso il compito di ‘fare tendenza’. Ciò viene delegato alle fanzines la cui incidenza è forzatamente limitata. I paraocchi e il frazionamento sembrano dominare incontrastati, fortunatamente il mondo musicale (e più in generale l’universo dei suoni) non conosce quelle barriere e quelle lineette di separazione così facili da disegnare sulla carta. I ‘generi’ musicali sfumano uno nell’altro, in un mosaico di contaminazioni e alchimie che forma un quadro ben più ampio ed eterogeneo di quello fissato dalle ‘rubriche’ specializzate. La realtà sonora stessa, presa come un unicum di esperienze psicofisiche, non sono è identica nei vari angoli del pianeta: ci sono differenze percettive, abitudini e livelli culturali che generano slittamenti nel modo di apprezzare e produrre musica. Ad esempio nei paesi dell’est l’orecchio giovanile è perlopiù sintonizzato su fenomeni che noi consideriamo datati e superati, il pop sinfonico e magniloquente va per la maggiore, gruppi dall’aspetto punk hanno in repertorio brani dei Genesis e di Bob Marley. Nei paesi arabi la musica popolare è rimasta legata, nonostante la colonizzazione dei paesi anglosassoni, a matrici culturali autoctone (l’esotismo di cui Battiato spennella le sue melodie, che Brian Jone andava a catturare a Joujouka). Insomma non esiste una sola ‘verità’, e il panorama sonoro non si ferma ai limiti coperti da storici e giornalisti: è una memoria collettiva soggetta a infinite riscritture e balzi temporali, nell’iperspazio dell’immaginazione.

Secoli di guerre, carestie e pestilenze, non sono riusciti a cancellare la tradizione musicale orale di popolazioni ancora ad un livello di sviluppo ‘primitivo’: la cosiddetta musica ‘etnica’ di tali comunità, del resto orami sottoposta quasi ovunque alle violenze e alle mutilazioni di carattere turistico-coloniale, contiene un patrimonio espressivo di varietà e complessità inusitata rispetto ai canoni del rock. Eppure la quantità di registrazioni reperibili sul mercato è infinitesimale confrontata al numero di dischi disponibili che ruotano attorno agli stessi tre accordi. Decine di gruppi new wave hanno attinto ritmi, atmosfere e melodie ‘tribali’ dai pochi album in commercio (quelli della Folkways e della Harmonia Mundi ad esempio stampati in Italia dalla Albatros), per non parlare degli esperimenti in fanta-etnologia tentati da Can, Residents, DDAA. In un certo modo si tratta di un ritorno alle origini, ripercorrendo la traccia ideale che dal rock al r&b agli spirituals conduce ai canti delle tribù africane, oppure che dai tamburi del mar delle Antille porta all’ibrido “Johnny B. Goode” di Peter Tosh o dai canti Maori della Nuova Zelanda alle correnti sperimentali-rumoristiche della costa meridionale australiana. Il grosso bene e bisogno collettivo di una identità culturale, che ha nella musica una delle sue più pure espressioni, è stato preservato nei secoli da popoli primitivi: la nostra società supertecnologizzata lo sta distruggendo in un paio di lustri, livellando su standard sempre più bassi le conoscenze e le informazioni distribuite simultaneamente dai mass media. Oggi un gruppo new wave italiano non differisce molto da uno inglese o giapponese: se da un lato questa specie di esperanto tecnologico fornisce un terreno comune sul quale confrontarsi, l’altra faccia della medaglia mostra una decadenza di tratti originali Orwellianamente irreversibile. Con l’avvento della videocrazia e dell’era telematica, il mondo senza libri di “Fahrenheit 451” non è poi tanto distante.

 

Nelle passate stagioni si è abusato del termine ‘post-moderno’ al punto di renderlo inutile ed equivoco: ciò è avvenuto a mio avviso non perché ci trovassimo di fronte ad un vero e proprio movimento artistico guidato da precise volontà intellettuali (come poteva avvenire in campo architettonico, o comunque in pochi casi particolari), ma ad una condizione ben più generalizzata, resa inevitabile dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione e dalla loro incidenza sui nostri ritmi vitali. Si trattava insomma del desiderio collettivo di racchiudere in una tranquillizzante etichetta una situazione apparentemente confusa e sconcertante, che vedeva per la prima volta operanti in maniera massiccia diversi stili e modelli espressivi intrecciatisi senza soluzione di continuità cronologica o formale. Nonostante il tentativo ben orchestrato di trasformare in moda al quadrato questa tendenza, il ‘post-modernismo’ è destinato ad accompagnarci per lungo tempo: corsi e ricorsi dei revival (in campo musicale: neo-psichedelia, neo-pop progressivo, neo-rockabilly, ect.) sono come onde concentriche generate in uno stagno a scadenze sempre più brevi, cosicché ora sono arrivate a confondersi in un unico punto che rappresenta il presente e tutti i possibili passati prossimi e remoti. Tale punto di contatto fra generi musicali è da ricercarsi non in una nuova miscela stilistica, bensì nelle strategie e nei mezzi operativi impiegati: oggi più che mai, il medium è il messaggio. La sincronizzazione e la specializzazione dell’individuo ad assolvere a poche ben delimitate funzioni ha permesso il passaggio indolore ad un’era dominata dalla figura del consumatore passivo e felice, ironicamente saturo di immagini e informazioni che hanno perso per lui qualsiasi peso reale. Le conquiste spaziali, i genocidi, le guerre, l’inflazione, sono solo parte dello spettacolo quotidiano: il video è diventato l’occhio del Grande Fratello e non il benefico totem socializzante di un ‘villaggio totale’.

La tecnologia ha però fornito armi straordinarie anche a coloro che dissentono dallo status quo. Ecco allora che, in campo musicale, le tecniche di riproduzione a disposizione di tutti hanno permesso lo sviluppo di un nuovo capillare amatorialismo: il selvaggio post-tecnologico è finalmente in grado di comporre la propria musica ‘etnica’, non solo di ascoltare prodotti preconfezionati e predigeriti. Una popolazione di analfabeti de pentagramma si avventura alla scoperta del mondo dei suoni (e, con la videoregistrazione delle immagini) armati di casio, bottiglie vuote, lamiere, sassi, strumenti inventati di volta in volta, ripercorrendo magari le tappe di certa musica concreta e sperimentale ‘colta’, ma anche con una totale e disinibita intercambialità di ricordi ed influenze passate e recenti. Si creano ‘networks’ alternativi ed internazionali di produzione musicale, il fenomeno mima il recupero di un decentramento culturale rispetto alla rigida gerarchia delle classifiche discografiche e dei miti generazionali.

Chi si accingesse ad ascoltare il parto creativo di questi dilettanti-dipendenti con lo stesso stato d’animo con cui ascolta un disco dei Clash, rimarrebbe inesorabilmente deluso: qui non si tratta di sollecitare le aspettative dei fans ma di uscire dai binari tracciati per recuperare una primitiva verginità nel fare musica. Una autoterapia che è senz’altro più utile per chi la sperimenta che per la gratificazione dell’ascoltatore, anche se un certo numero di etichette indipendenti e musicisti non convenzionali hanno prodotto in questi ultimi tempi opere valide sotto tutti gli aspetti.

Non bisogna insomma confondere un fenomeno sociale di vasta portata, che raccoglie l’eredità del vecchio circuito ‘underground’ adattandolo ai tempi, con alcune espressioni musicali che di questo fenomeno si fanno semplicemente portavoci per il grande pubblico: Throbbing Gristle, SPK, Cabaret Voltaire, Norcturnal Emissions, hanno sempre inserito nel loro lavoro, elementi contrari alle formule in voga, cercando di reagire ideologicamente e creativamente alla situazione di azzeramento culturale descritta finora, privilegiando strategia inconsuete all’interno del mondo discografico. Alcuni sintomi mostrano chiaramente che l’ambiente giornalistico musicale si sta accorgendo, dopo il necessario periodo di incubazione, delle potenzialità di questo audio-network interdisciplinare.

 

La rivista america Re/Serach (un tempo bibbia punk col nome “Search & Destroy”) da un paio di anni ha concentrato la sua attenzione su gruppi “industriali”, il numero più recente è anzi addirittura un voluminoso “Manuale di Cultura Industriale” la cui introduzione non lascia dubbi: “le condizioni del dialogo fra l’avanguardia e pop ha cambiato parametri. L’attenzione è passata dall’underground alle classifiche”.

Un altro caso è dato dalla rivista inglese Sounds che nello scorso maggio ha pubblicato a puntate una piccola enciclopedia delle nuove tendenze non convenzionali, intitolata “Pianeta selvaggio”: il panorama è abbastanza lacunoso e caotico, si va da gruppi stranoti come Residents e Tuxedo Moon ad altri sconosciutissimi come Laibach e Amok, ma l’intento è quello di cominciare a tracciare una mappa dettagliata di questa musica ‘altra’ che sfugge catalogazioni precise ma di cui si possono identificare alcuni minimi comuni denominatori, dall’arte dei rumori di Luigi Russolo, alle tecniche cut-up di William Burroughs, dall’uso privilegiato della cassetta e del contatto diretto all’interscambio e alla frequente cooperazione internazionale fra etichette. La logica del consumo vuole che ci sia un ricambio continuo nel gusto del pubblico, se altri seguiranno l’esempio di Re/search e Sounds (che annuncia una rubrica fissa curata da Dave Henderson) probabilmente si arriverà ad aggiungere una nuova ondata sulla ormai tempestata spiaggia del rock: a trovargli un nome ci penseranno quegli stessi giornalisti che oggi aspettano pazientemente di aggiungere una figurina al loro album personale, musicisti come Z’ev e Non avranno smesso di risultare insopportabilmente fastidiosi, un nuovo ghetto verrà edificato per i patiti dello shock sonoro, semplicemente assuefatti ad un nuovo ‘stile’. Il punk è apparso al principio come un movimento ereticamente originale e alieno, ma oggi è possibile rintracciare le formazioni ‘più punk’ degli anni sessanta e settanta. Il rumore potrà apparire il prossimo giro di boa nella storia del rock, l’ultimo feticcio sonoro da abbattere: in realtà esso è già entrato da tempo nel nostro universo sonoro e nella musica rock (basti pensare ai deliri chitarristici di Jimi Hendrix), si tratta di un processo lunghissimo e in gran parte sotterraneo che porta a stabilire nuovi standards e formule musicali, da aggiungersi a quelle già esistenti ed operanti. L’underground di pubblicazioni autonome, fanzines e registrazioni che segnano lo svilupparsi di questo network in un certo senso attualizza tutti i capisaldi della protesta beat-hippie: l’accento è posto sulla liberazione dell’individuo piuttosto che della comunità, un materialismo pragmatico e un po’ cinico ha rimpiazzato le meditazioni e gli incensi orientaleggianti, immagini di morte e di distruzione le sorridenti composizioni op-floreali e i light-show psichedelici. Un underground insomma meno solare e collettivista, ma anche meno impregnato di retorica: i suoi aspri e sgraziati che lo accompagnano (industriali, libera improvvisazione, elettronica incolta, nuova musica, o come preferite chiamarli) sono una purga amar ma a questo punto più che necessaria per purificarci da una grossa indigestione da media, e in previsione di un altro Rinascimento.

Non vorrei che questo scritto, e le recensioni che vado scrivendo da qualche tempo su prodotti musicali inconsueti, facesse pensare che è semplicemente tempo di aggiornarsi sull’ultima novità, sostituire badges e cambiare acconciatura. Può anche fare piacere accorgersi per tempo di certi fenomeni culturali, però non dobbiamo dimenticare che altre mutazioni sostanziali si stanno verificando sotto i nostri occhi, e soprattutto che noi abbiamo la possibilità di intervenire su queste mutazioni. Non è sufficiente sostituire i vecchi con i nuovi idoli (anzi è proprio quanto l’industria culturale richiede), e anche se continuerò a scrivere di gruppi come Merzbow, Nurse with Wound, Legendary Pink Dots, Konstruktivists, New 7th Music, non fosse altro che per il motivo che quasi nessuno si occupa del loro onesto lavoro, sono ben consapevole che non si tratta dell’ultima spiaggia o della unica alternativa alla musica delle Hit Parades.

Pierre Boulez, un veterano della ricerca concreta-elettronica, ha detto della musica che “i suoi limiti sono destinati ad essere perpetuamente infranti”, e nel centro che dirige a Parigi utilizza infatti strumenti sofisticatissimi che consentono di scomporre e ricomporre a piacimento le onde musicali. Oltre la soglia del rumore puro, il rock del duemila utilizzerà forse onde mentali, scale di note cromatiche e olfattive, impulsi nervosi sintetizzati, certamente non si fermerà mai su posizioni già conquistate. E dato che ci saranno sempre queste nuove ondate su di un pubblico ben disposto a lasciarsi bagnare, è auspicabile che la prossima grande mutazione interessi proprio il consumatore di prodotti musicali: che questi maturi una curiosità e un intuito capaci di andare oltre le informazioni fornite dalla stampa e la persuasione martellante degli altri media. La situazione generale è delle più difficili, e proprio per questo richiede tutto il nostro impegno positivo, senza dar spago a polemiche settarie o previsioni apocalittiche.